LA PIAGA DELL’ANALFABETISMO EMOZIONALE. Contromisure progettuali per un’educazione all’empatia.

Pubblicato il da Nuccio Salis

.1. Introduzione

Chi, se non i genitori di un bimbo, sono i primi soggetti a regolare l’esperienza affettiva ed emotiva del piccolo? La famiglia come luogo formativo di relazioni primarie è la principale agenzia educativa responsabile nell’assolvere quei compiti di guida, supporto, protezione e spinta alla crescita che fanno parte del mandato di chi è per l’appunto deputato a pianificare il percorso dello sviluppo, sia in modo strutturato che semi-strutturato, naturalmente in funzione delle caratteristiche sociali di chi è preposto a tale ruolo.

I genitori sono i primi personal training emozionali del bambino, anche qualora non fossero consapevoli della loro notevole influenza in merito. Tale condizionamento avviene, infatti, forse per la maggiore, seguendo modalità casuali e non intenzionali. ovvero generando un clima che definisce il modello famigliare dominante, e che offrirà un rilevante pattern identificativo al bambino, generando quella fondamentale esperienza di imprinting che costituirà una importante impalcatura base per la complessiva struttura psicodinamica del bambino stesso.

Sarebbe pertanto auspicabile che i genitori fossero informati e consapevoli circa le potenzialità educative di cui sono in possesso, per poter così orientare la loro azione verso forme il più possibili funzionali, a vantaggio dei figli, per garantire il più possibile che crescano in modo equilibrato, in un ambiente che presenta un adeguato modello di affettività, sia dal punto di vista quantitativo che qualitativo.

La cura dell’ambiente famigliare è essenziale per poter fornire al piccolo un esempio di come si costruiscono le relazioni interpersonali e si regolano i complicati meccanismi della comunicazione.

Le regole societarie comuni, ispirate a principi di eguaglianza e democraticità, stabiliscono infatti che:

 

“È dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli (…) “ [articolo 30 della Costituzione della Repubblica Italiana]

 

Gli aggiornamenti del quale sono riportati nell’articolo 147 del Codice Civile.

Alla famiglia sono dunque riconosciuti ed ascritti i fondamentali compiti relativi alla creazione delle condizioni ottimali per offrire alla prole possibilità di sviluppo ed emancipazione.

Pertanto, da una prospettiva riservatamente pedagogica, non si può che guardare alla famiglia come quel nucleo in cui si creano le premesse e gli itinerari necessari a provvedere al riconoscimento e soddisfacimento dei bisogni naturali e sovrastrutturati del bambino.

A seguito di tale chiave di lettura, la pedagogia si impegna a rispondere mediante progetti di sostegno e consulenza alla famiglia, aderendo ad approcci che sollecitino le famiglie a individuare e mobilitare da sé le proprie risorse, secondo un’ottica di empowerment, che conduca all’espansione di capacità, competenze e utilizzo di strategie e strumenti fino a un certo momento ignorati e sottostimati.

Soltanto sollecitando consapevolezza, ed investendo sulla formazione di un atteggiamento esplorativo da parte genitoriale, è possibile pensare la famiglia come entità proiettata dentro una dimensione da cui poter estendere la propria esperienza, allargare le trame storiche dei propri vissuti, creando di fatto un luogo che produca significato, che trasmetta valori, che presenti opzioni identitarie e che costruisca un orizzonte di senso che salvi dall’annichilimento e dalla rassegnazione.

E’ la famiglia, insomma, che ottempera all’obbligo di indicare percorsi, di indirizzare e suggerire possibili rotte ed orientamenti di percorso. La stessa competenza empatica, dunque, prende origine dal vissuto famigliare. Gli esempi, le prescrizioni, le regole condivise, i confronti più e meno costruttivi, l’eredità storico-culturale appresa dalle tradizioni, le abitudini e la quotidianità, i progetti comuni, gli imprevisti, i successi e i fallimenti, lutti e nascite, le fasi salienti dei passaggi e delle transizioni più significative, costituiscono i principali elementi di tutte quelle complesse dinamiche che configurano la storia ed il vivere famigliare. E’ mediante tali fattori che ciascun gruppo famigliare forma ciascuno dei propri membri, dentro un intreccio articolato di sollecitazioni reciproche e interdipendenti.

Dallo studio e dall’interesse di questo fenomeno, d’altra parte, nasce apposta un approccio scientifico che definisce la famiglia come oggetto di studio. Il contributo pedagogico si delinea come tentativo di spiegare e dare risposte anche su di un piano operativo, allo scopo di immettere strumenti educativi validi che ciascun genitore potrebbe impiegare per migliorare la propria performance educativa.

 

.2. Aiutiamo i genitori. L’importanza dell’empatia

Come primo punto, per poter definire una rigorosa piattaforma basata sul parent training, si potrebbe anzitutto fissare la necessità da parte di ciascun genitore di prendere atto del proprio ruolo attivo all’interno delle vicende famigliari. Soltanto attraverso tale principio fondativo, di fatto sarà possibile far riappropriare ogni genitore del senso del proprio ruolo, caricato ed investito di una responsabilità educativa da organizzare al meglio.

Da tale consapevolezza generale, si può specificare il nodo focale intorno a cui si pianifica l’intero lavoro. In questo articolo, si vuole argomentare della nascita e dello sviluppo dell’empatia, e pertanto sarà questo tema a costituire il nucleo principale di tutta la riflessione.

Sotto questo aspetto, a mio parere vale il principio secondo cui in una società complessa come la nostra non sia più ammissibile, anche e soprattutto a riguardo del ruolo genitoriale, affidarsi alla tradizione, all’improvvisazione e alla casualità.

Attualmente (e ciò è deducibile dall’esperienza educativa anche comparata con molti altri colleghi), i genitori risultano molto spesso come le persone che conoscono meno i loro figli, e latitano dalle loro responsabilità, avvinti dalla paura del fallimento, terrorizzati dal giudizio altrui, strangolati dalla sensazione di essere incapaci. Rassegnati, la maggior parte di loro batte in ritirata e getta la spugna, ed altri ancora ridimensionano le loro difficoltà evitando di vederle, fino a negarle ed occultarle inconsciamente, adoperando tutti quei classici meccanismi di difesa per via dei quali ci si autoassolve dai propri insuccessi, evitando di mettersi in discussione. Fra le altre reazioni più note (in quanto spesso sono usate per riempire le cronache), si evincono gli attacchi diretti, gratuiti e violenti a chi ha osato avanzare dubbi e criticità sul loro agire “educativo”, od a chi ottemperando al proprio mestiere ha dovuto emettere una valutazione non sufficiente sul rendimento scolastico o la condotta di certi ragazzi.

Pericolosamente ciechi e sordi a queste inadempienze, i genitori finiscono con il modellare i loro figli dentro una cornice di permanenza egocentrica e di auto-assolvimento senza condizioni. Circostanza per la quale i giovani non riescono (e non vogliono) assumersi più le loro responsabilità, e proiettano colpe e manchevolezze sempre e soltanto sugli altri, colpevoli di aver sollevato perplessità sul mito dell’infallibilità e della perfezione narcisistica che affligge ormai gran parte della civiltà occidentale.

Iperprotetti dentro una gabbia dorata da cui dipende la reputazione di ogni membro della famiglia, i giovani finiscono per sentirsi sempre giustificati perfino da azioni più che discutibili e riprovevoli. Sollevati da questo compito, attaccano chiunque si permette di avanzare osservazioni che li richiamino su comportamenti accettabili quali ad esempio il rispetto della diversità e della cosa pubblica, concetti sempre più alieni nella vita dei giovani.

Vocati ed attratti sempre più da fenomeni legati alla devianza, fin da giovanissimi occorrono attualmente delle contromisure che rilancino il contributo irrinunciabile da parte dei genitori, nel tentativo di immettere nella vita dei loro figli esempi di positività e di validi motivi per vivere.

Nessun stucchevole ottimismo e nessuna frase fatta circostanziata potrà aiutare tale situazione storica di visibile emergenza sociale. E’ necessario piuttosto prendere atto della gravità del momento epocale in cui ci troviamo, con un crescente analfabetismo emozionale che sta conducendo al crollo dei principi fondanti che legano gli esseri umani fra loro, in un tessuto relazionale che richiede compartecipazione e atteggiamenti prosociali.

La mancanza di empatia è un fenomeno allergico e disgregativo dei rapporti umani, in quanto ne mina le fondamenta primigenie e naturali, e induce pericolose derive e regressioni verso comportamenti di sopraffazione e dominio violento sull’altro, perché ne squalifica il valore umano intrinseco, ovvero dissolve quella percezione di “altro da noi” che riconosce sia la similitudine che l’uguaglianza in termini dei rispettivi diritti naturale e positivo. Le sembianze di tale fenomeno sono riscontrabili nell’aumento dei fenomeni di bullismo, di aggressione alla diversità, di analfabetismo relazionale, di distruzione della cosa pubblica, di disconoscimento e attacco indiscriminato verso chi rappresenta le regole ed i princìpi condivisi.

In assenza di un’educazione all’empatia, ogni maglia della rete sociale è destinata a depauperarsi, riportando gli umani ad uno stadio della vita in cui tutti sono contro tutti, ed i gruppi non sono aggregazioni sociali ma branchi, e di tutto ci si può impossessare purchè più forti e più furbi degli altri.

In un mondo privo di soggetti empatici, gli scenari andrebbero oltre l’immaginazione distopica, dal momento che l’appagamento individuale dei bisogni dell’ego è la prerogativa da soddisfare, e dunque gli altri rappresentano un ostacolo da eliminare con ogni mezzo. Soltanto dall’empatia e dal riconoscimento della diversità altrui, nonché da una più completa rappresentazione di se stessi e dunque di differenziazione, può svilupparsi quel collante delle relazioni che fanno delle stesse il prezioso strumento per eccellenza del divenire umano.

Senza empatia viene a mancare qualunque bussola in grado di dare la rotta, qualunque mappa da cui stabilire la propria collocazione, qualunque regola, qualunque orizzonte di senso, qualunque coordinata di vita propriamente umana.

Non si può permettere un tale livello di bestialità, una simile degenerazione che sta comunque avvenendo sotto gli occhi annebbiati e gli sguardi distratti di una moltitudine di genitori e altre figure educative.

E’ urgente avviare progetti di aiuto alle famiglie, per fronteggiare questo inverosimile disagio che sta diventando ormai la carta di identità naturale di ciascuna famiglia.

Certo, l’invito rivolto ai genitori è che siano rispondenti in modo altrettanto propositivo, cioè che in fin dei conti ci aiutino ad aiutarli, abbattendo le loro remore e le loro incancrenite resistenze al cambiamento.

 

.3. Aiutiamo i genitori. Idee, progetti e strategie

Per legittimare una critica che vuole soltanto essere il più possibile obiettiva, fondata su fatti osservabili ed esperienze condivise, è necessario anche avanzare proposte costruttive.

Sono convinto che è responsabilità anche di noi pedagogisti, riuscire oltre che a misurare la portata di un fenomeno, anche di pensare ad una serie di stratagemmi da poter sperimentare al fine di fronteggiare tutto questo dilagante disagio. Nessuno di noi possiede magiche ricette nascoste, meno che mai formule o incantesimi tramite i quali risolvere l’immensa mole dei problemi che asfissiano l’intera società.

Noi possiamo e dobbiamo fare la nostra parte, nel tentativo di fornire ai genitori ed alle famiglie, strumenti il più possibile validi, e soprattutto flessibili e versatili, perché si sposino con le particolari storie, stili di vita, costumi e personalità di ciascun singolo membro del nucleo famigliare.

In prima battuta, credo sia opportuno che ogni genitore riceva un minimo capitale di informazioni riguardo alle leggi che governano lo sviluppo integrale dei loro figli. Non si sta affermando che dovrebbero assimilare lo scibile pedagogico e divenire esperti in discipline scientifiche specialistiche che si occupano dello psichismo umano. Quel che si intende dire è che in questa epoca contemporanea non è più possibile ignorare almeno quelle leggi elementari che costituiscono gli universali del processo dello sviluppo.

Troppo spesso possono essere osservati da parte dei genitori degli errori grossolani e degli interventi educativi per davvero maldestri ed inefficaci, e quasi sempre si tratta di inviare ai bambini richieste o comandi inadeguati, fuori tempo evolutivo e non idonei alla costellazione dei bisogni e delle abilità possedute da un bambino in un preciso momento del suo sviluppo.

I comportamenti genitoriali nei confronti della prole sono pressoché totalmente legati a teorie e credenze obsolete, ingenue e inadatte alla storicità presente, in quanto ripescate dalla tradizione o dalle proprie esperienze vissute durante l’infanzia. È necessario aiutare i genitori a comprendere la frequente antistoricità ed inefficacia dei loro comportamenti. È pur vero, come già mi hanno obiettato in qualche occasione, che i genitori erigono un muro impenetrabile fra loro e i professionisti che manifestano la volontà di supportare la loro funzione. Le loro resistenze e la loro preconcetta e forte avversità alle figure di aiuto è nota e risaputa.

In tale circostanza è chiaro che noi non possiamo afferrare la mano di chi si rifiuta di tenderla per congiungerla alla nostra. L’aiuto non si impone, si propone. Si parla perciò di chi manifesta un minimo di apertura, e di chi si è lasciato la libertà di cogliere che esistono dei problemi, e che possono anche essere affrontati. Insomma, non si può certo aiutare chi con estrema e ostinata durezza si oppone al nostro tentativo e misconosce la nostra opera, soprattutto perché non se la sente di permettersi di accogliere l’evidenza delle circostanze disadattive e dare loro un nome. In pratica, per poter sollecitare uno spiraglio di compliance famigliare, è condizione necessaria (anche se non sufficiente) valutare che almeno uno dei soggetti genitoriali non si trovi in uno squalificante livello nella matrice della svalutazione, secondo le coordinate che ne da la psicologa transazionale Jacqui Lee Shiff, per capirci. Ovverosia, in riferimento ad un genitore che potrebbe ignorare perfino l’esistenza stessa di un problema da fronteggiare.

Anche se tutti siamo a conoscenza delle differenze psicologiche fra noi ed i bambini, non sembra che a seguito di tale consapevolezza seguano degli appropriati modelli educativi da parte di noi adulti. Sembra piuttosto che rimaniamo tutti nel persistere a replicare comportamenti inadeguati, e spesso a dare per scontato che un bambino abbia compreso le nostre ragioni, o che condivida i nostri stati affettivi, oppure ancora che quando esperisce un comportamento di pianto o di rabbia riottosa, si debba trattare per forza di un capriccio. In pratica, troppi genitori interpretano in modo piuttosto pressappochista i comportamenti dei loro piccoli, e ne conseguono reazioni maldestre che spesso ri-eccitano l’evento comportamentale ritenuto problematico.

Per poter crescere bambini in grado di comprendersi sotto l’aspetto emozionale, e di utilizzare un raffinato linguaggio affettivo, è necessario sviluppare noi adulti per primi una buona rispondenza empatica, per poterci proporre come allenatori capaci, e non come cattivi maestri, che pretendono maturità senza possederla anzitutto in noi stessi.

Insomma, è molto probabile che il processo storico della scoperta del bambino, auspicato dalla nota Maria Montessori (1870 – 1952), sia ancora tutt’altro che completato, e che gli adulti facciano ancora fatica a riconoscere l’espressione individua e peculiare di chi possiede ancora dei rilevanti punti di immaturità congiunti ad altrettante aree di potenzialità.

Allora, per poter espletare alla nostra funzione educativa con credibilità ed affidabilità a gli occhi dei bambini, dobbiamo anzitutto conoscere i passaggi e le fasi salienti in cui i nostri piccoli stanno sviluppando le doti legate all’assunzione di un atteggiamento empatico. È naturale che si tratta di un percorso graduale e articolato per livelli crescenti di competenza.

 

 

4. Noi e le emozioni. Conoscere per educare

IL rapporto con le nostre emozioni è un tipo di contatto che ci prefigura fin dalla nascita come esseri senzienti, in grado cioè di registrare emozioni, e di utilizzare le stesse per fini comunicativi e di promozione dei nostri bisogni. Questa caratteristica ci appartiene e compare fin dalla nostra nascita, naturalmente sotto forme rudimentali che attendono ulteriori sviluppi e progressi, soprattutto se si ricevono adeguati stimoli e sollecitazioni sotto l’aspetto educativo.

È bene sapere che le emozioni con cui si è in contatto alle origini appartengono ad un genere primario, in quanto facenti parte di un repertorio di cui siamo geneticamente dotati per ragioni di immediata sopravvivenza.

A partire dai due mesi, in particolare dentro una finestra evolutiva che può comprendere anche i 5 come coda inferiore, i bambini cominciano a sviluppare la capacità di discriminare e riconoscere l’espressione emozionale della gioia, della rabbia e della sorpresa, affidandosi peraltro ad indizi quali referenti mimico-espressivi del volto, indici gestuali ed altre componenti non verbali quali le cinestetiche e il paraverbale.

Poiché si tratta di una fase di rodaggio preliminare, è evidente che possono ancora commettere molti errori, soprattutto se si tiene conto che certi indizi, essendo legati alla relatività dei canoni culturali da decodificare, necessitano di un tempo di interiorizzazione per poter essere consolidati dentro le proprie strutture inerenti alle rappresentazioni interne generalizzate.

Dal settimo al dodicesimo mese i bambini possono anche codificare le espressioni emotive in modo da rispondervi in maniera selettiva, sostando sul feedback ricevuto e facendo inferenze associative dalle quali regolano il proprio comportamento. È l’embrione della intersoggettività. Potrei riassumere con un espediente linguistico che il mattone non è l’edificio. Si tratta comunque dell’inizio di un percorso che prevede una continua ed inarrestabile ascesa (in caso di sviluppo neurotipico) verso una sempre maggiore qualità della competenza empatica.

Quel che conta sottolineare è che l’empatia va inquadrata dentro un orizzonte molteplice e multidimensionale; ovvero, quando si parla di empatia, si deve fare riferimento ad una compagine di elementi interconnessi che ne stabiliscono la sua complessità.

Inoltre, la rispondenza emotiva non è che un elemento singolo precursore della struttura generale dell’empatia. Difatti la risposta empatica non è soltanto la conseguenza di una elementare forma di identificazione/contagio con l’altro da noi, rapportato specularmente, ma implica per giunta la capacità di decriptare correttamente sia indici espressivi che quelli contestuali e situazionali che descrivono il significato dell’evento nella sua totalità. Soltanto quando si raggiunge questo livello si può dire di essere capaci di rilevare incostanze ed incongruenze nel processo comunicativo, e di utilizzare un importante mediatore cognitivo che rappresenta un altro componente essenziale dell’empatia. In questo caso, il livello del sentire interiore è congiunto con la sfera del leggere ed interpretare il senso di ciò che accade, attribuendovi anche il proprio personale significato.

Le basi dell’empatia si costruiscono certamente fin da molto piccoli, inizialmente dentro schemi e modelli di un’intersoggettività piuttosto semplice, e che richiederà in seguito di essere compiuta, nonché in grado di includere gli aspetti comunicazionali più sofisticati della relazione interpersonale.

Dal momento che ciascun bambino risulta già naturalmente sintonizzato con i messaggi espressivi di un caregiver che gli dedica attenzioni, sarebbe bene consolidare quegli elementi precursori che costituiscono le fondamenta della competenza empatica. Per esempio si pensi alla capacità di riconoscimento delle espressioni facciali, facilmente “palestrabile” attraverso giochi imitativi e di mimetismo che includono significativi processi di rispecchiamento (mirroring) e del piano simbolico del “far finta che”. Nelle fasi più precoci, è chiaro che tutto questo assume le caratteristiche proprie del contagio emotivo, in cui il concetto di differenziazione fra sé e l’altro è ancora assente, ed al bambino non resta che sostare sulle emozioni proposte ed inviategli dalla figura adulta che gli riserva le proprie cure. E’ a partire da questi episodi, comunque, che al bambino viene rifornito il giusto carburante affinchè sviluppi un percorso da cui impara progressivamente a comunicare sulla base di richieste ed istanze personali, a rivolgere attenzione verso se stesso e quindi gradualmente a comprendere ed accogliere l’altrui diversità, risolvendo e superando i precedenti stadi di fusione simbiotica con l’adulto. Forme più sofisticate di interdipendenza sociale sostituiscono le forme più elementari precedenti, permettendo al bambino di appropriarsi della capacità di regolare i rapporti con l’alterità secondo coordinate di intimità/distanza.

In letteratura, diversi autori indicano età piuttosto variabili nel fissare le tappe salienti di questi importanti modelli di sviluppo, tuttavia sembrano concordare tutti sulla descrizione di un processo continuo di crescente maturità e abilità empatica, che può essere colta con chiarezza e rigore scientifico soltanto se la si osserva sotto un’ottica di multidimensionalità, al fine di coglierne e comprendere il funzionamento degli elementi costitutivi che la compongono.

Tale processo presenta in ogni caso dei punti critici (touchpoint) nello sviluppo di un bambino, che rappresentano una sorta di zona frontiera in cui vecchi schemi di comprensione della realtà si preparano a cedere il passo a sistemi e costrutti interne maggiormente evoluti e funzionali. Ed è proprio in questi momenti intermedi che ciascun bambino acquisisce anche il diritto di essere seguito e supportato per poter espandere e potenziare le sue competenze. Ad esempio, un bambino che nota un’evidente struttura di diversità negli altri, dovuta a visibili differenze anatomiche, manifesterà la sua curiosità nel domandare e ricercare il perché di una distinzione così manifesta. Accade in genere quando, intorno ai 4 anni e poco più, un bambino, nel vedere per esempio una persona seduta sua una sedia a rotelle o con altre caratteristiche distintive dovute ad eventuali anomalie o menomazioni, si preoccuperà nel fare esperienza di una tale condizione, con la sensazione che ciò possa appartenere anche a lui e che possa capitargli. Tale fenomeno proiettivo, che non può certo essere confuso con l’empatia, in quanto è ascrivibile esclusivamente ad un modello mentale e affettivo egocentrico, rappresenta comunque il principio di un punto di svolta che contiene i fattori costituenti le successive impalcature di un’empatia di grado più maturo ed avanzato.

Questi passaggi si possono osservare quando i bambini cominciano a produrre ragionamenti propri, magari ancora intrisi delle influenze da parte di contenuti esterni di cui hanno fruito, per esempio animazioni televisive. Esiste una significativa transazione che ci indica quando il bambino comincia a comprendere le differenze e le sfumature fra i concetti di simile e verosimile; ovvero quando comunica una serie di indizi che ci permettono di osservare il superamento della sua prospettiva egocentrica.

Per tutte queste ragioni è indispensabile assumere pienamente il ruolo genitoriale nella sua parte di allenatore emozionale. Esistono fortunatamente degli espedienti anche ludici che possono aiutare a svolgere questo compito, scommettendo sulla compartecipazione del bambino.

Si può per esempio giocare con una sorta di scacchiera o sciarada delle emozioni, in cui in alcuni bigliettini possono essere annotati i nomi di diverse emozioni, ed estrarle per costruirvi una storia, rievocare esperienze aneddotiche, manifestare auspici, desideri, sfogarsi e delineare nuove prospettive di lettura nei rapporti sociali.

Personalmente è un metodo che impiego per aiutare i bambini nella connotazione delle emozioni e nella riflessione fra queste e gli effetti dei rispettivi comportamenti corrispondenti, sia agiti realmente che proposti in un nuovo contesto di azione.

Sono queste delle possibili opzioni e modalità educative di cui ogni genitore può disporre, e che può applicare secondo un principio di gradualità, in quanto bambini via via più maturi potranno essere richiamati a riflettere sulle conseguenze delle proprie azioni esperite, a rendersi conto di come l’ambiente risponde a ciò che fanno, e quindi di come sia necessario cogliere un legame solido, interattivo e continuo fra noi e gli altri.

Molto spesso, alla base di strutture di personalità che non esprimono empatia, vi sono esattamente delle trascuratezze sotto questi aspetti, ovvero famiglie poco attente alla dimensione affettiva e sociale dello sviluppo, che non insegnano o sottostimano l’importanza di far comprendere quanto sia importante provare a “mettersi nei panni di…” per avere più elementi e più strumenti per una corretta condotta comportamentale. Si tratta quasi sempre di famiglie disaffettive, cioè che regolano goffamente ed in modo inefficiente la loro funzione di amorevole contenimento, oppure nuclei famigliari del tutto anaffettivi, in cui cioè la dimensione emozionale nel rapporto è negata, censurata o vissuta come un tabù. Ed è ormai risaputo che un’emozione proibita verrà sostituita da una permessa nella propria esperienza, che però si rivelerà incongruente per la circostanza vissuta. Per esempio invece di provare gioia per un evento che obiettivamente dovrebbe sollecitare tale esperienza, si avverte rabbia oppure tristezza.

E’ invece importante, per l’appunto, accogliere e prendersi cura della sfera emozionale del bambino, e dirigere sempre la sua attenzione anche sugli altri, e non solo su se stesso, per cominciare a comprendere la relazione causale fra emozioni, sistema di motivazioni e comportamento, risposta di retroazione da parte dell’ambiente sociale o di un gruppo specifico, saper mettere in relazione l’evento emotigeno antecedente con gli effetti dei propri e altrui rispettivi comportamenti.

 

.5. L’impopolarità di educare all’empatia

Certo, qualunque cosa insegni oggi un genitore potrebbe scontrarsi con un generale assetto culturale che ha la tendenza ad omologare gli atteggiamenti su certi precisi standard. Educare all’empatia significherebbe crescere persone equilibrate che ricercano negli altri le motivazioni dei loro comportamenti, che tentano di esplorare la presenza di eventuali interconnessioni emozionali, che si impegnano nell’intuire e leggere tutto ciò che gli altri sentono, provano e quindi esperiscono attraverso l’azione. Tutto ciò risulta piuttosto dispendioso ed impegnativo, in una società che sospinge a raggiungere obiettivi con il minimo sforzo, con il massimo della velocità e con un’attenzione sempre minore alla qualità ed all’efficienza. E soprattutto all’interno di un contesto competitivo, dove non c’è tempo per l’empatia, ed anzi si rivela magari un punto debole per chi vi ricorre, in quanto si possono rendere trasparenti anche le proprie fragilità. Altri possono farne uso infatti solo per accedere al mondo esperienziale interiore altrui in modo da manipolarlo con più facilità, una volta conosciuti gli anfratti più deboli, ed altri ancora potrebbero fingere per ottenere stima, approvazione, consenso e popolarità. La ricerca ed il mantenimento di una positiva reputazione sociale può essere d’altra parte un obiettivo sottilmente legato ad una strategia di autopromozione.

L’insegnamento dell’empatia non coincide infatti con tali surrettizi stratagemmi. La scelta di educare all’empatia consiste nel tentativo di formare un individuo equipaggiato di strumenti relazionali e comunicazionali che tengano conto sia dei propri modelli, vissuti, bisogni e sistema di valori, che di quelli altrui, per avviare processi efficaci e costruttivi di confronto e negoziazione. Essere empatici è l’unica maniera per integrarsi in modo equilibrato in un tessuto sociale e divenire protagonisti co-costruttori degli eventi sociali e dei significati culturali.

Apprendere la capacità empatica e farne un buon uso significa aderire a una vera e propria rivoluzione. L’empatia è attualmente un baluardo di resistenza contro un dilagante malessere sociale che la sta annichilendo ed asportando dalle caratteristiche nucleari di un essere umano.

Essa, in questa epoca odierna, rappresenta la vera forza, la vera spinta al superamento della crisi dei valori sociali e morali, il reale motore di cambiamento possibile. In sintesi, la più grande ed autentica trasgressione che oggi si possa fare, quasi al pari di dire la verità.

 

 

dott. Nuccio Salis

(Pedagogista clinico, Counselor socio-educativo, Educatore professionale adh, Formatore analitico-transazionale)

 

 

Bibliografia che ha ispirato l’articolo:

 

_ Bonino et al., Empatia, Firenze, Giunti, 1998.

_ Brazelton T. B., Sparrow J. D., Il bambino da 3 a 6 anni, Milano, Fabbri Editori, 2001.

_ Scilligo P., Analisi transazionale socio cognitiva, Roma, LAS, 2009.

_ Shapiro E . L., Il linguaggio segreto dei bambini, Milano, Rizzoli, 2008.

_ Stewart I., Joines V., L’analisi transazionale, Roma, Garzanti, 1990.

_ Trisciuzzi L., Ulivieri S., Il bambino televisivo, Firenze, Giunti, 1993.

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