LA FAME D’AMORE FRUSTRATA. Credenze popolari sull’educazione affettiva neonatale .

Pubblicato il da Nuccio Salis

La nostra è la società della competizione. È richiesta efficienza, competitività, rapidità, produttività. L’epicentro di tutto è l’aspetto materiale, la produzione, l’attività sostenuta e continua della macchina del profitto e del mercato, a qualunque costo. È questo l’imperativo del sistema e la sua dottrina dominante che guida la stessa organizzazione sociale e ne sostiene di conseguenza tutti i suoi princìpi. Si delineano a questo proposito degli effetti collaterali a tutto campo, e dei quali spesso dobbiamo renderci conto quando ormai è troppo tardi, e molti dei quali stiamo imparando ad ammetterli e riconoscerli: si va dal depauperamento e dalla devastazione dell’ecosistema e delle sue risorse naturali, fino allo sfacelo sociale ovvero alla creazione di un tessuto comunitario sfigurato dal disagio, dalla marginalità, dalla devianza e dalle ingiustizie che di fatto separano una casta elitaria di privilegiati che blinda il suo potere da una moltitudine di disgraziati esclusi dal mercato e, nel caso vi fossero all’interno, molto spesso le loro condizioni sono comunque infelici, in quanto contrassegnate dalla precarietà e dall’instabilità, costringendo gli stessi ad accettare mortificanti vessazioni sulla persona e sul ruolo, imposto da questo stato di cose.

 

Oltre a questi oggettivi effetti devastanti sul piano sociale,  e quindi su tutti quegli elementi di interconnettività che lega gli individui gli uni agli altri, in termini anche di qualità nelle relazioni interpersonali, a farne le spese sono inevitabilmente i soggetti più deboli e indifesi della società: i bambini.

 

I bambini rappresentano decisamente la parte più esposta alla violenza della società adultocentrica, e che sempre più si vede obbligata ad ignorare i bisogni degli stessi, per mantenere il proprio stato di cose. I bambini vengono riprodotti e allevati senza che spesso vi sia a monte un’organizzazione famigliare in grado di ascoltare, accogliere e fronteggiare i loro bisogni profondi. I bambini hanno invece fondanti e urgenti necessità e diritto di avere al loro fianco adulti responsabili e competenti. I nostri piccoli richiedono una presenza costante che sia in grado di rispondere prontamente alle loro naturali richieste. La domanda di rispondenza affettiva fa parte di quelle necessità che ciascun bambino tende a soddisfare a ragione di come è stato geneticamente programmato. Si tratta di un’esigenza vitale e irrinunciabile che richiede opportuni comportamenti di rispondenza prossimale da parte degli adulti, specie se impegnati nel ruolo genitoriale ed investiti delle responsabilità che vi sono associate.

 

Tale ruolo non è dato dal mero fatto biologico legato al concepimento, in quanto si tratta di una funzione da acquisire progressivamente nella quotidianità che prevede la costruzione dei rapporti all’interno del nucleo famigliare.

Il sistema e le sue politiche anti-bambino ha già bello che pronto il suo pacchetto di contromisure per ostacolare tale piena acquisizione di ruolo consapevole. Il sistema non può permettersi di arrestare o rallentare la macchina della produzione solo perché i suoi ingranaggi hanno figliato, e quindi li convincerà che la loro presenza diretta non è poi così indispensabile. Anzi, il bambino dovrà pur abituarsi al distacco, dovrà diventare autonomo, dovrà imparare a cavarsela da solo, e quindi è giusto allenarlo precocemente alla giungla sociale dove vige la legge del più forte e il principio mors tua vita mea. Quindi le mamme devono ritornare al più presto al lavoro, visto che ci sono offerte e servizi che si propongono come validi sostituti all’amore materno. I padri, poi, figuriamoci, quando mai affettivamente hanno svolto una funzione di valido sostegno alla crescita e all’equilibrio del bambino? In buona sostanza, gli stili di vita genitoriali e i relativi modelli educativi non vengono discussi da pedagogisti o dai diretti protagonisti coinvolti, ma imposti dal verticismo classista dei capitalisti dediti esclusivamente alla difesa dei loro affari.

 

Il cinismo e l’insensibilità vincono sull’amore. Pensare di riprogrammare una civiltà sui presupposti del secondo è cosa utopistica e irrealizzabile, alla pari di uno stucchevole ed allucinato sogno hippie. La realtà (condizione arbitraria generata da pensieri ed azioni sulla base di convinzioni indottrinate) impone l’adozione di un modello considerato come il solo ed unico possibile.

 

Questa arrogante prospettiva adultocentrica non ammette discussioni, dal momento che cercare minimamente di ridimensionarla nelle pratiche della quotidianità, significa anche assumersi il rischio di apparire come dei pericolosi sovversivi, alla pari di un terrorista che minaccia la tranquilla mondanità dei più. Eppure diventa importante perseguire pratiche di parenting alternative rispetto a quelle abitualmente più diffuse e consolidate, quindi accettati come normali.

 

Di certo, l’impostazione adultocentrica è funzionale al mantenimento perpetuo dello status quo della classe dominante, e quindi non si limita ad un discorso squisitamente pedagogico ma abbraccia ampiamente un orizzonte dialettico a carattere socio-politico.

 

Peraltro, nonostante questo conosciuto stato di cose produca disagio, specie nelle donne lavoratrici-madri, il bambino non è comunque collocato al centro delle priorità sociali. Il bambino non è di fatto soggetto sociale, ma soltanto un evento strettamente privato e riservato che ha avuto luogo in seno a una famiglia o ad una vicenda individuale. Si assiste cioè a un disinvestimento dell’idea di bambino come potenziale rigeneratore e attivo partecipante della crescita sociale in termini di salute sociale, cultura e spiritualità. È esattamente il contrario di ciò che insegnava la Montessori.

 

Secondo il modello dominante che sovrasta sulla cultura popolare, l’avvento della nascita del bambino va gestito affinchè questo non venga a costituire un elemento disturbante nel ruolo prioritario assegnato alla persona come anello del processo produttivo materiale.

 

Difatti, dentro questa corsa frenetica vincolata ai meccanismi di produzione/consumo, si è pure assegnato un nome, un’identità e una descrizione che risultano decisamente fuorvianti rispetto ai profondi ed autentici bisogni che un bambino manifesta: nello specifico, le naturali e legittime richieste affettive, di contatto e di scambio relazionale da parte del bambino (soprattutto fin da quando è neonato) vengono chiamati ‘vizi’ o se si preferisce ‘capricci’; con ammesse le più disparate varianti dialettali, purchè disprezzino l’intima e profonda natura di un cucciolo umano. Si tratta di una scaltra operazione di “marketing delle parole”, attraverso cui si generano concetti-frame che nello specifico caso in questione rimandano a considerare inappropriate, eccessive, strategiche, addirittura manipolative, i messaggi di richiesta e bisogno d’amore da parte di un neonato.

 

Noi forse non ci siamo ancora del tutto resi conto di una cosa molto semplice (per chi la può o la vuol vedere): e cioè che noi ci ostiniamo a vivere in un contesto in cui le richieste naturali e la ricerca primigenia di caring affettivo, da parte di un neonato, sono già catalogate, lette, interpretate (e soprattutto equivocate) alla luce di ciò che può servire soltanto alla tutela degli equilibri strutturali di una società fondata sulla base di presupposti e scopi che non si conciliano con i bisogni fondamentali di un bambino. E di ciò bisogna prenderne coraggiosamente atto. È più che probabile, però, che si perseveri a nascondere comodamente la testa sotto la sabbia, deprezzando, squalificando, ignorando e sottostimando sistematicamente i bisogni spontanei di un bambino.

 

Sarebbe vissuti infatti come troppo impegnativo il fatto di dover attivare un comportamento rispondente in modalità adeguata rispetto alle richieste spontanee e naturali di un bambino, che non sono certo pianificate, pretestuose o strategicamente collaudate per manipolare l’adulto, come invece comunemente si crede. Intercettare correttamente le richieste di un infante così piccolo ci obbligherebbe a metterci in discussione su più fronti. Ci toccherebbe entrare nel merito di essenziali parametri che regolano la nostra vita, rivedendo e ridimensionando i nostri concetti di produttività, ruolo genitoriale, presenza e costanza affettiva, modalità di caring parentale; e ritrovarci così a sostenere qualcosa di molto impopolare, correndo il rischio inevitabile dell’incomprensione e dell’isolamento. In prima battuta, una ricognizione critica circa il proprio ruolo genitoriale implica il prendere atto che assolvere tale funzione significa anzitutto dedicare tempo sia in quantità che in qualità che non dovrebbe avere pari in riferimento ad altre esterne figure di sostegno che vicariano temporaneamente i compiti genitoriali.

 

Questo vuoto di caring affettivo famigliare, da parte dei genitori naturali del bambino, è supportato e giustificato da argomentazioni ideologiche e politiche massificate e inculcate come valide, verso la collettività, che sono state rese inattaccabili a tal punto da far scattare in automatico meccanismi di difesa appena qualcuno cerchi anche soltanto di sollevare legittime perplessità sulla frenetica e folle organizzazione sociale fondata sui ritmi del lavoro e della frenesia. Eppure questa condizione rende vittime anche gli stessi genitori, che si ritrovano esausti e disorientati, costretti a gestire uno stile di vita innaturale e inadatto per la struttura e i bisogni umani. Sono dunque gli stessi genitori che dovranno poi verificare che le assenze, le mancanze, il deficit affettivo durante la prima infanzia, genera un “debito” di amore che verrà poi rivendicato nelle fasi più avanzate dell’età evolutiva. Pensiamo ad esempio all’adolescenza, periodo in cui il pudore circa la portata di tali sentimenti dovrà convivere con l’orgogliosa spinta all’autonomia ed all’emancipazione, con la lacuna e la ferita di un vuoto che non si chiederà più alla fonte genitoriale ma verrà ricercata esternamente, mediante comportamenti che, proprio a causa di un sentimento di instabilità e di insicurezza di sé, saranno in prevalenza orientati verso un’oppositività poco costruttiva anche con caratteri devianti e disfunzionali. Questo fenomeno, che molti genitori vivono con sorpresa o incredulità, confermano che attualmente, le persone che conoscono meno i giovani e i loro turbamenti, sono proprio i loro genitori. E la ragione di questo è per davvero molto semplice: non hanno costruito con i loro figli una relazione.

 

Tali conclusioni ed affermazioni si basano su riscontrabili e verificabili dati di fatto, e quindi perseguono il solo scopo di illustrare una situazione meritevole di osservazione, di attenzione e di sostegno, in quanto contiene numerosi fattori che costituiscono urgenze e drammi da cui dipende il generale benessere della vita collettiva.

Il disamore per la verità porterà quasi certamente a svalutare lo spessore di queste considerazioni ed a valutarle mediante le stranote frasi fatte e dichiarazioni di circostanza con le quali ci si difende da sempre per evitare il cambiamento.

 

Eppure, lo sconcerto dei genitori di fronte a certi atteggiamenti e/o interessi dei loro figli, rende conto di quanto i primi preferiscano percepire i loro figli dentro le sicure cornici di immagini stucchevoli ed edulcorate circa l’identità dei loro figli, oppure all’altro estremo squalificarli in continuazione senza minimamente intravvederne capacità e risorse. Sembra insomma non esserci una via di mezzo. O si esaltano i propri figli attribuendo loro qualità che non hanno o li si deprezza sminuendoli e non riconoscendoli qualità di cui invece sono in possesso. Qualunque di queste strategie è attuabile purchè non si affronti la questione del rapporto genitori/figli su un piano di realtà.

 

Questo può accadere anche perché molti genitori si ostinano a non vedere proprio ciò che hanno contribuito a creare, e questo li destabilizzerebbe, mettendoli troppo in discussione. Oramai hanno maturato e consolidato la convinzione incrollabile sulla bontà del loro modello educativo essenzialmente fondato sulla delega, e poi la società dei consumi è dalla loro parte, e il “progresso” non può essere fermato. Eppure questo modello costituisce di fatto l’autorizzazione giuridica ed educativa all’abbandono. E qui, attenzione, si cerca di parlare dal punto di vista del neonato e del bambino molto piccolo, che se ne fa molto poco delle spiegazioni logiche e razionali di un adulto che deve allontanarsi, partire, viaggiare ecc. Il bambino vuole condividere tempo e amore, e ciò non rappresenta una scandalosa e ingenerosa pretesa, come invece si attribuisce al bambino, a cui si chiede di sostenere il peso di uno strappo affettivo nel nome dell’autonomia e della sicurezza interiore. È questo il più grande equivoco nel rapporto fra adulto e bambino. L’adulto ha rimosso questo dolore, lo usa solo per riempire i suoi vuoti magari con abitudini malsane e per accettare le vessazioni e le mortificazioni della società dei consumi, e questo perché, fondamentalmente, nel suo subconscio crede ancora che sia colpa sua. Il bambino infatti non può ammettere e comprendere nessuna spiegazione che proviene dal lessico adultocentrico, e quindi non potrà che alla fin fine optare per l’unica opzione che gli rimane: convincersi che gli succede per colpa sua.

 

Per gli adulti, questa condizione che si verifica delinea semplicemente l’allenamento precoce al distacco e all’emancipazione affettiva, confusa con l’autonomia e con la resilienza, con la forza di resistere agli urti di un’esistenza che tanto prima o poi pone di fronte ad episodi di siffatta natura.

 

Questo conduce a dover ammettere ancora una volta qualcosa di scomodo: non sappiamo niente dei bambini. E i genitori spesso non conoscono i loro figli. Frequentano la stessa casa, o meglio condividono più o meno casualmente gli stessi spazi abitativi, si incontrano dentro il medesimo domicilio, convivono anche nei comuni momenti di silenzio e di distrazione individuale, con gli occhi fissi su un cellulare o su un I-Pod.

 

L’impopolarità di queste affermazioni è prova di fatto che la società ha oramai acriticamente accettato il processo della disgregazione e dello svilimento di tutti i rapporti affettivi e interpersonali, a partire dalla famiglia. Nessun cascame a carattere ideologico o religioso nella spietata analisi di questi fatti, solo l’osservazione di come vanno sempre più configurandosi i dati di realtà sociale diffusa. Dalla presa d’atto di questa situazione ne può dipendere il generale benessere dei bambini, a partire dalla prima infanzia, età in cui la richiesta di prossimità affettiva e di costante presenza dell’adulto è indispensabile, ed è inviata in quanto facente parte di quel processo naturale di conoscenza, attaccamento, costruzione della relazione con l’altro da sé, col fine di porre le basi della reciprocità interpersonale in termini di fiducia, apertura, abilità comunicativa, empatia e alfabetizzazione socio-affettiva. Guarda caso, sono esattamente questi i requisiti e le competenze sempre più deficitarie nelle nuove generazioni dei nativi digitali, cullati dai surrogati tecnologici.

 

È questa una circostanza storica di una gravità assoluta, che dovremmo fronteggiare sul fronte pedagogico, senza ammettere troppe scusanti e giustificazioni.

 

È necessario prendere atto che gli adulti addestrano i bambini alla lotta futura che spetterà loro di affrontare, proprio in ragione del fatto che questa è generata esattamente dall’idea e dalle aspettative che gli adulti medesimi hanno sulla società che arbitrariamente hanno costruito. È in pratica una profezia che si autoavvera in ragione di questa curiosa acrobazia mentale. Si tratta di un cortocircuito che si autoriproduce, in forza della mentalità dominante contaminata dal virus del dominio e della sopraffazione del più forte sul più debole.

 

L’inganno consiste nel presentare ai bambini un mondo irrimediabilmente connotato dalla violenza e dalla lotta per primeggiare, e quindi i sentimenti sono cosa “per deboli”, zavorre che nessun abile guerriero può permettersi, se non vuole cedere e se piuttosto intende sopravvivere nella giungla del tutti contro tutti.

 

 Il tutto è giustificato dal darwinismo sociale, e dalle ridicole teorie sulla discendenza dell’essere umano dai primati. Ma tutto è valido pur di conservare il proprio assetto sociale e proteggerlo dal cambiamento.

 

Tutto è utile purchè si difenda la società in cui vige la legge del più forte, del più astuto e del più prepotente, nonché nel più strategico che sa vendersi, camuffarsi ed ingraziare chi le garantisce la sua posizione sociale. Seppur non insegnando tali disvalori in modalità direttamente verbale, li si trasmette mediante gli esempi.

 

La preparazione del guerriero avviene così fin dalle origini. Abbiamo di fatto affermato nel corso della storia occidentale un modello spartano dell’educazione.  Formiamo dei gladiatori già dalla culla, indottrinando un concetto di forza rude e primitivo, che consiste nel reprimere la propria sensibilità, ignorare o rimuovere le zone di fragilità e mascherare i punti deboli e vulnerabili. Bisogna imparare a non piangere, a rimanere da soli, a non chiedere affetto e contatto umano. Si sopprimono così i sentimenti, e si cresce analfabeti sotto l’aspetto della lettura e dell’uso delle emozioni, conducendo le relazioni interpersonali alla stregua di scenari drammatici che attivano il copione della sofferenza, scritto dalle nostre ferite e sofferenze interiori. Tali eventi confermano e rafforzano la convinzione di partenza, ovvero rapportata all’idea che legarsi sentimentalmente sia qualcosa di sconveniente, un potenziale sempre aperto di tragicità e di ingestibile complessità, e che quindi alla fin fine val bene rinunciare o far ricadere i rapporti nell’ambito utilitaristico in pieno allineamento alle dottrine dell’ideologia capitalista dove la vita vale meno dei bisogni della finanza e del mercato. Di fatto, anche le relazioni interpersonali, dentro questa cornice culturale, aderiscono alle regole del consumo a tal punto che le parti in gioco verranno utilizzate e logorate alla stregua di prodotti fabbricati dall’oggettistica industriale.

 

Questa impostazione orienterà chiunque ad evitare di entrare in profondità sia nella comprensione di sé che dell’altro, affrancando dall’impegno di mettere al centro della vita i sentimenti e il valore delle relazioni. La superficialità verrà vissuta come una strategia protettiva per salvarsi dallo scotto da pagare nel sovvertire l’ordine delle priorità in una società che richiede cinismo e ambizione per ottenere sicurezza e successo materiale.

 

Questo implica anche l’accettazione del fatto che chi si impegna ad usare l’altro per i suoi meri bisogni materiali, si presta a sua volta ad essere usato da chi promuove e rilancia il medesimo atteggiamento dentro un contesto che premia e favorisce esattamente tali norme sociali non scritte.

 

L’addestramento spartano del bambino corazzato ad una siffatta società, viene così reiterato dal fatto che il contesto si conforma proprio alle aspettative e alle rigide profezie che contribuiamo a realizzare. La società è violenta perché, sostanzialmente, è così che la vogliamo e la immaginiamo, considerando irrealizzabili e utopistiche tutte le altre alternative. È proprio questo cortocircuito ininterrotto a riattivare il medesimo dramma.

 

Mi sovviene a questo punto quella frase che dice che il vero schiavo non è colui che è imprigionato a catena, ma colui che non riesce più a immaginare una società diversa da quella nella quale vive.

 

Seguendo le precedenti considerazioni, si cresce introiettando comandi interiori quali “devi essere forte”, “non piangere mai”, “non mostrare le tue debolezze”, “lotta e combatti fino allo sfinimento”, “preparati alla guerra”, “schiaccia prima che ti schiaccino” ecc.

 

E tutte queste ingiunzioni si comunicano precocemente, fin da quando si è neonati. Il piccolo deve abituarsi a un mondo che lo ferirà e lo lacererà, mettendo alla prova la sua capacità di reagire e cavarsela da solo in mezzo ai guai, quindi lo si lasci solo a piangere, non si gratifichino le sue richieste di nutrimento affettivo, sennò poi cresce debole, e si farà sopraffare dagli eventi. Sono queste, fondamentalmente, le radici di molti episodi di disagio psichico, devianza e violenza che riempiono le cronache quotidiane. Le nostre convinzioni e credenze generano esattamente quello che ci attendiamo e che prospettiamo dal mondo. Si tratta dell’ennesimo sconcertante cattivo profitto della mente umana, usata per sceneggiare un’epopea di violenza e di aberrante storiografia.

 

È sufficiente convincere perfino le madri, fino a plagiarle nel profondo dei loro sentimenti più naturali, che il loro immediato corrispondere alle richieste del bambino non sia salutare per lo stesso, dal momento che la comunicazione dei bisogni di condivisione affettiva da parte del neonato sono catalogati inflessibilmente come “vizi” e “capricci”, nella nosologia clinica orwelliana che deve servire a reggere lo stato generale del contesto storico-culturale che si autoperpetua.

 

In buona sintesi, facciamo diventare un tabù la richiesta d’amore. La nostra è una società che fa molta fatica soltanto a parlare di amore, a pronunciarne la parola e ad autorivelarsi attraverso questa espressione. L’amore autentico è un rischio che non si concilia con i precetti di una società che richiede tutt’altra scala di bisogni artificiali e di priorità indotte dall’apparato dirigenziale.

 

Perciò, secondo queste coordinate culturali, l’unico percorso da indirizzarsi coincide con il fortificare il bambino fin dal suo primo periodo di vita, ignorando le sue richieste. L’irriducibile convinzione consiste nell’essere certi che così facendo, il bambino cresca forte e sicuro di sé, requisiti notoriamente importanti per un lottatore senza macchia.

Numerosi studi citati da varie personalità nel campo della divulgazione della psicologia perinatale, dimostrano invece esattamente che sono proprio i bambini continuamente accuditi ed appagati nelle loro richieste affettive, a sviluppare la spinta vitale alla fiducia, all’esplorazione attiva, all’apertura relazionale , alla buona immagine di sé alla sicurezza sulle proprie capacità.

Sono invece proprio coloro a cui non viene offerta la stabilità e la continuità affettiva, ad essere maggiormente esposti al rischio di sviluppare tratti spiccatamente nevrotici di personalità quali ansie, fobie e disturbi depressivi.

Ovvero, l’adulto che ha condotto con irregolarità e interruzioni le cure prossimali da dedicare al neonato, proprio nella convinzione errata di educarlo all’autonomia e all’autocontrollo, lo ha reso di contro estremamente fragile e insicuro, facendogli mancare il principale carburante primario che da vita alla stessa vita: l’amore e la presenza costante dell’adulto.

 

L’equivoco di un tale accudimento disfunzionale è talmente grottesco al punto di attribuire al neonato intenzioni e volontà strategiche pianificate, per le quali servirebbero sofisticati impianti e processi neuronali di cui ancora il neonato non è equipaggiato. Eppure si sente dire spesso “è bravo, non piange”, perché il neonato che piange, si sa, è cattivo; “ti fa dormire, è un bravo bambino” ecc. Si ascrivono al neonato comportamenti di problem-solving programmati e gli si attribuiscono caratteri identitari delle cui strutture e processi il neonato stesso ancora non dispone, ma agli occhi di adulti strettamente convinti di ciò che perfino molti esperti hanno sostenuto (e sostengono tuttora), non può esistere una dimensione di realtà diversa da quella che percepiscono.

 

Di conseguenza, dare al bimbo il seno a richiesta significa viziarlo o farlo diventare un piccolo tiranno, così come prenderlo in braccio quando tende le sue manine per essere afferrato e coccolato significa assecondare il suo capriccio.

 

Sono oramai tante le ricerche comparate che smentiscono tutte queste popolari ed ingenue credenze, ma il percorso per ridimensionare queste ultime sembra più ostico e difficile di quanto si possa prevedere. Gli umani sono sempre restii a trasformare le loro abitudini, nonostante queste si rivelino oggettivamente disfunzionali. Il comfort è preferito di gran lunga alla novità. Pochissimi esemplari possono permettersi di osare a navigare per nuovi viaggi trasformativi e di vera evoluzione. È anche questo uno dei principali motivi di profondo decadimento individuale e sociale.

E allora qual è in fondo la vera forza? Magari consiste proprio nel conservare dignità e autenticità i sé, evitando di cadere nelle seduttive trappole del successo, del carrierismo, dei traguardi che prevedono privilegi e poltrone d’oro. Coraggioso e tutt’altro che debole, a questo punto, può essere considerato proprio colui che affronta le difficoltà e le richieste della vita senza corrompersi, onorando la verità e ciò che soddisfa le istanze dell’eterno spirito. Coraggioso diviene colui che rinuncia all’ottenimento dei ruoli di prestigio, conquistati con manovre manipolative e operazioni sporche, oscure e di dubbia eticità. E coraggioso è anche colui che si permette di contattare le proprie fragilità, di accoglierle, ascoltarle, decodificarle all’interno di un linguaggio emotivo e relazionale allo scopo di farne una risorsa preziosa per il suo divenire e la costruzione delle proprie narrazioni, alla ricerca di autentica intimità e condivisione.

Coraggioso è ancora colui che resiste dentro un contesto che censura le emozioni profonde e genera il tabù dell’espressione vera di sé, che nasconde e offende il dolore, ricoprendolo della superficialità delle frasi fatte.

Facciamoci caso: la nostra è una società nella quale si chiede scusa se per qualche ragione ci commuoviamo (o piangiamo) in pubblico. Chiediamo scusa per i nostri sentimenti, ovvero ci scusiamo per le nostre fragilità, per la nostra  storia, per aver osato di mostrare un punto vulnerabile in un mondo pronto a ferirti. Come umani non chiediamo scusa per aver massacrato irreparabilmente l’ecosistema, per aver riempito di plastica gli oceani, per aver fatto sparire interi atolli marini con i test atomici, perché torturiamo animali con la facciata di qualche buona causa, perché sottraiamo risorse ai Paesi del Terzo Mondo provocando infanticidi, malattie, miseria e degrado di ogni tipo. Non chiediamo scusa perché apparteniamo a un’umanità che fa orrore. Chiediamo scusa perché mostriamo il nostro dolore.

 

Certo che questo è un aspetto a dir poco curioso.

 

A questo punto, come pedagogista mi sento a maggior ragione di voler rivendicare le istanze primordiali di un bambino, relative alle sue richieste di affetto, allo scopo di sfatare tutte quelle sciocche credenze funzionali al mantenimento del sistema, che hanno contaminato finanche la sfera del privato, compenetrando in modo abusivo nell’intimità relazionale e affettiva fra una mamma ed il suo bambino. Contrasto nel mio piccolo una società che forza e costringe fin da quando si è molti piccoli a laceranti strappi traumatici che vengono percepiti oramai come passaggi addirittura obbligati. Ed ecco allora configurarsi una serie di eventi di angoscia abbandonica dentro cui il bambino sperimenta la gratuita cessazione di un rapporto d’amore, in un susseguirsi di allontanamenti quali staccarsi dal seno, staccarsi dal lettone dei genitori, staccarsi dagli abbracci e rinunciare alle coccole.

 

Personalmente mi oriento a favore del conseguimento naturale di queste fasi, quindi favorevole a tutte quelle forme di sharing (condivisione) di comuni spazi abitativi (room, bed), fino a consentire il contatto prolungato e costante nell’addormentamento, con tutte le sue positive ricadute sull’umore, la funzionalità biopsichica e il generale stato di salute e di equilibrio.

 

Con tutti i dovuti e responsabili accorgimenti per la sicurezza fisica dei lattanti, delle singole esigenze organizzative di ciascuno e di tutte quelle particolarità logistiche che rendono ogni famiglia un mondo a sé, rimane il fatto che il momento di una così intima e vicina condivisione crea le premesse per una relazione percepita come forte, valida, stabile e altamente qualificante per lo sviluppo di tutti i requisiti base per un vivere sociale che abbia prospettive diverse da quelle comunemente riscontrabili nei comuni modelli di comunicazione.

 

Soltanto educando all’affettività in modalità coerente, e quindi garantendo continuo nutrimento e presenza al bambino che manifesta in vari modi la sua richiesta, si potranno acquisire i canoni di comportamento e di abilità relazionali che si potranno rifare a condotte più genuine, dettate dall’interesse e dalla cura verso il prossimo, piuttosto che reiterare modelli sociali notoriamente connotati dall’incompetenza nella gestione e nella stabilità delle dinamiche di scambio, di contatto e di mediazione.

 

Aiutando le madri, le funzioni genitoriali e tutto il sistema famiglia a riappropriarsi della funzione primaria formativa, possiamo auspicare di sostenere la stessa affinchè riesca a promuovere lo sviluppo armonioso di quelle solide impalcature di base che costituiscono la piattaforma identitaria e psicodinamica di ciascuno di noi, dal momento in cui riceve gli stimoli più influenti e determinanti della sua stessa vita.

 

Una nuova cultura pedagogica dovrà osservare con maggiore criticità certi dogmi del passato (ma ancora tristemente del presente), e decidere di stare dalla parte del bambino, sapendo che egli potrà sviluppare e costruire la spinta vitale e quel vigore ergico primario che gli consentirà di affrontare la vita con un senso di interiore di efficacia, di sicurezza, di stima di sé, di curiosità esplorativa, sapendo che può contare su un pieno di amore, su un credito che vorrà condividere col solo obiettivo di offrire agli altri, lo stesso benessere appagante che egli ha sperimentato quando veniva dolcemente accudito e saziato della naturale fame d’amore, la cui mancata gratificazione è il vero epicentro da cui partire per ricercare le origini di qualsiasi disagio sia personale che collettivo.

 

Si potrà soltanto attraverso questa via rigenerare un tessuto sociale che ha necessità di individui sì coraggiosi, ma non guerrafondai, perché il vero coraggioso non ha bisogno di uscire armato, poiché la sua migliore arma è la sua dignità, il suo procedere verso un senso che egli stesso ha pianificato per lui, nella consapevolezza che ogni giorno gli spetta offrire il suo notevole e spontaneo contributo alla diffusione di una cultura per un nuovo umanesimo che rimette al centro la priorità della vita e della sua originaria essenza.

 

Un silenzioso ma al tempo stesso rumoroso cammino lo hanno intrapreso non pochi nuclei famigliari che in controtendenza al generale ed avvilente piattume omologante che detta i precetti e i decaloghi dell’educazione, ricerca alternative per impreziosire l’esistenza e modellare una direzione di marcia che abbia senso per tutti coloro che condividono l’esperienza dello stare insieme e dell’unità famigliare.

L’augurio è che si sviluppi una pedagogia realmente evoluta in grado di osservare e anche di partecipare  a questo fenomeno, meditando nuovi spunti e preziose risorse da proporre, con spirito innovativo e di vivo contributo al miglioramento delle generali condizioni sociali.

 

 

dott. Nuccio Salis

(Pedagogista clinico, Counselor socioeducativo,

Formatore analitico-transazionale, Educatore professionale adh)

 

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