ADULTI CON AUTISMO. Ripensare i paradigmi della “educabilità”

Pubblicato il da Nuccio Salis

L’evento educativo è certamente situato in un “qui e ora” che definisce il senso e l’orizzonte dentro cui ciascun principio e ciascuna azione seguente ne configurano la forma e la direzione. La pianificazione di ogni intervento a favore dello sviluppo umano tiene conto di una molteplicità di fattori contingenti, e tale galassia composita di variabili socio-culturali ne sostanzia e ne giustifica le pratiche, con l’intento di fronteggiare adeguatamente tutti gli elementi rilevati dalle circostanze attuali. È dunque l’osservazione del presente che interessa principalmente chi fornisce e svolge il servizio a sostegno di un valido percorso di apprendimento. È dalla cornice temporale vissuta e partecipata in vivo che si possono ricavare tutti quegli aspetti, sia funzionali che di maggiore criticità, che determinano la piattaforma concreta su cui si agisce momento per momento, sperimentando e verificando la circolarità della relazione dinamica fra bisogni individuali e richieste dell’ambiente. Tale processo impone in itinere riflessioni e modalità di risposta appropriate, rivolte verso un progressivo miglioramento delle proprie abilità adattive e trasformative. Proprio questo è il punto. La crescita è un movimento che combina l’esigenza adattiva di un immediato presente con le tensioni implicite di mutamento. Si tratta di un’osmosi progressiva che coinvolge la capacità di proteggere i propri equilibri e al tempo stesso di proiettarli in una dimensione in cui sono richieste maggiori disponibilità evolutive in termini di risposte proattive e di maturo problem-solving.

 

Ciò rende l’atto educativo una risposta strutturata che se da una parte si rivolge a far emergere abilità con funzioni di adattamento e recupero della propria condizione di equilibrio primario, d’altra parte è volto anche alla creazione di qualcosa di nuovo, e le risposte che sollecita costituiranno le risorse a cui l’educando attingerà per programmare nuovi  script di risposta rispetto ai cambiamenti avvenuti dentro la sua cornice contestuale di riferimento. Tutto ciò implica che l’attitudine a promuovere l’agire educativo ha a che fare inevitabilmente con la trasformazione non più limitata ai confini di un presente istantaneo, ma decisamente caratterizzata anche da aspettative ed obiettivi a medio e lungo termine, nonchè implicata da un’idea di avvenire e da un generale investimento sul futuro dell’individuo e della società.

 

Spesso, però, a tali valori fondanti non sempre hanno seguito corrispondenti modelli e traiettorie educative che agevolassero l’unicità della persona nel suo divenire storico. Occorre invece costruire percorsi in cui l’esperienza tangibile e ri-costruttiva dell’identità del soggetto, sia l’effetto di scelte e di prospettive teleologiche congruenti alle successive azioni da intraprendere. In buona sostanza, ciò che risulta necessario è la promozione di un’alleanza credibile e sicura fra ipotesi di intervento e reale applicazioni di strumenti e metodi da impiegare a favore dell’utenza.

 

Nell’ambito del trattamento educativo all’autismo, è storicamente noto come questo approccio abbia lungamente costituito una considerevole lacuna, e che un certo cascame culturale pietistico ha forse condizionato, contribuendo a far dirigere piani e procedure educative verso un recinto temporale limitato, e che di solito è stato associato alla vita scolastica dell’utente interessato al disturbo dello spettro autistico. In altre parole, per tradizione pedagogico-didattica, l’intervento sull’autismo è stato confinato in un territorio certamente privilegiato e comunque di notevole importanza, che da una parte ha reso anche possibile osservare in modo più approfondito certe dinamiche comportamentali a carico del soggetto con autismo, rendendo più accurata e precisa l’analisi dei fenomeni cognitivi e comunicazionali facenti parte del repertorio espressivo di ciascuno degli individui di cui in oggetto.

 

Ciò è vero che ha concorso meritoriamente ad ampliare la conoscenza verso il meccanismo dello spettro autistico, perfezionando i paradigmi scientifici e dettagliando con maggiore chiarezza ipotesi e teorie eziologiche di più affidabile e robusta affidabilità. Per molto tempo, il soggetto con disturbo dello spettro autistico è stato identificato nella figura esclusiva dello studente. L’impegno e l’investimento educativo sono stati dirottati unicamente all’utenza con autismo sovrapposta unicamente al ruolo di “allievo” di scuola. E fino a che il soggetto frequentava la scuola , impegnato nel suo percorso di formazione ordinaria e tradizionale, egli poteva ricevere l’interesse e l’opportuno sostegno da parte di profili professionali certificati. Questo comportava sia un prezioso e sicuro alleggerimento nella custodia educativa da parte del nucleo famigliare, sia la garanzia di un tentativo di aiuto valido ed efficace, atto a sollecitarne e misurarne progressi.

 

Se infatti chiediamo di pensare ad una persona con autismo, nell’immaginario comune viene evocato con tutta probabilità un bambino, o al massimo un ragazzo, lasciando da parte adulti e meno che mai di genere femminile, per quanto si sa risulti il meno colpito dai disordini dello spettro autistico.

Non viene cioè contemplato l’adulto, come se si smettesse di avere la sindrome autistica con la fine “ufficiale” dell’età evolutiva o alla conclusione del ciclo di istruzione obbligatoria.

 

Mentre è ormai sempre più noto ed anche constatabile come l’allungamento della vita media di un soggetto autistico può raggiungere età con un range variabile dai 55 ai 65 anni. Ciò impone di occuparsi della sindrome autistica lungo tutta la durata della vita del soggetto che ne è caratterizzato. Le implicazioni sociali a carico devono riguardare la comunità intera, dal momento che un individuo adulto con ASD potrebbe ritrovarsi senza più le figure genitoriali che assolvevano alla sua integrità, sopperendo alle sue fragilità ed alle sue scarse o carenti funzioni di autonomia. La domanda inevitabile è ‘chi si occuperà di lui?’ ‘Chi si assumerà l’impegno di compensare in parte quelle aree espressive di sé in cui non può avere piena e completa padronanza?’ ‘Come potrà affrontare compiti ed ostacoli quotidiani che la vita richiede?’ Sono domande e quesiti a cui si deve cercare di dare una valevole risposta, possibilmente adeguata alle specificità della storia e dell’identità di ciascuno nella propria diversità. Si tratta di impiegare metodi e strumenti allargando la prospettiva temporale dentro cui determinate abilità potranno essere attivate, in vista di un’accentuata futura complessità esistenziale, data da una serie di circostanze che potrebbero manifestarsi come veri e propri fattori di rischio, nel caso in cui si trascuri il fatto che il bambino autistico di cui ci stiamo occupando diverrà un adulto con autismo, considerata la valenza permanente del disturbo in esame. Questo significa che anche il bambino con una particolare condizione invalidante, esattamente come i soggetti tipici, deve essere preparato alla vita adulta, e che gli insegnamenti che gli sono consegnati dovranno avere un valore di espansione sul proprio repertorio di abilità emergenti e di competenze acquisite e consolidate. È un fatto che mette insieme riflessioni pedagogiche, ingegneria didattica e diritto allo studio.

Si tratta quindi di reperire strategie e percorsi di apprendimento che favoriscano il potenziamento di una “cassetta degli attrezzi” ben fornita ed equipaggiata.

 

Nell’ambito della progettazione educativa, questa reimpostazione costituisce un notevole cambio di paradigma, che arricchisce ogni prospettiva di intervento secondo una linea guida che aderisce al principio di preparazione alla vita. Ciò estende gli ambiti degli apprendimenti programmati, ed avvalora gli stessi di un contenuto nuovo, in quanto li finalizza verso una meta che li accomuna, ovvero il potenziamento delle isole residue di autonomia del soggetto con ASD.  Una volta assunto questo approccio come lettura principale dei vari livelli di abilità osservati e registrati in seno all’individuo in esame, tutto ciò che viene rilevato potrà essere ricondotto alla finalità preposta, la quale coincide con l’attivare il soggetto verso il raggiungimento di traguardi di autonomia concreta e produttiva, dalla quale eventualmente potrà ricavare anche parte del suo sostentamento personale e provvedere a sviluppare ulteriori competenze a questo legate, come per esempio fare degli acquisti, selezionare prodotti e beni di consumo, che equivale anche a conoscere le proprie aree dei bisogni espressi e non espressi. Tutte implicazioni che incidono sul percorso evolutivo del soggetto a cui rivolgiamo il nostro interesse.

 

Esiste da qualche tempo la possibilità operativa di includere una serie di eventi osservati, descrivendoli ed annoverandoli dentro un elenco costruito secondo le seguenti categorie:

 

_ Attitudini lavorative

_ Comportamenti lavorativi

_ Funzionamento indipendente

_ Attività di tempo libero

_ Comunicazione funzionale

_ Comportamento interpersonale

_ Riepilogo e programmazione

 

Tale lista di categorie riflette esattamente lo scopo di questo modo di procedere, ovvero impegnarsi nella raccolta di una soddisfacente mole di informazioni tutte finalizzate ad essere riconvertite in un’attività costruttiva, utile e socialmente richiesta, e quindi remunerata secondo parametri di legge. Sarebbe peraltro questa una matura prospettiva di reale integrazione, in linea con gli interessi e le attitudini mostrate dal soggetto nel corso del suo apprendimento (sia formale che informale), e che dovrebbe peraltro dare pieno compimento ad un percorso propriamente educativo nel senso ampio e globale di tale espressione. Qui si tratta di ripensare l’educabilità e di riformularne teorie e pratiche annesse. Questo modello va ben oltre le formule puramente assistenziali o di alleggerimento della custodia genitoriale, perché si tratta di dirigere ogni sforzo ed ogni compito affrontato dal soggetto verso prestazioni di carattere tangibile e misurabile. Ciò rilancia anche la visione pedagogica progressiva del noto filosofo dell’educazione statunitense John Dewey (1859 – 1952), il quale ha da sempre promosso e sostenuto la formazione umana come acquisizione e padronanza di competenze spendibili dentro una comunità cooperante che promuove, recupera e riconnette un tessuto sociale finalmente irrobustito da relazioni autentiche e funzionali.

 

 

Dalla teoria alla pratica. Percorsi di programmazione

I princìpi che supportano una programmazione efficace a favore di soggetti con disturbi nello spettro autistico, sono validati da continui riscontri pratici da cui si evince che ogni attività complessa può essere appresa a patto che venga consegnata secondo una modalità sequenziata. Se ciò vale specialmente per i soggetti clinicamente contrassegnati dalla sindrome autistica, è perché il bisogno di ordine e di regolarità che contraddistingue il modo di percepire ed elaborare i dati da parte di una mente autistica, rappresenta un fenomeno assai ben noto presso chi è deputato ad assolvere una qualche funzione di affiancamento alla persona con ASD.

 

D’altra parte, sarebbe sufficiente riflettere quanto siano scomponibili in singole sequenze algoritmiche tutte le nostre attività quotidiane, verso le quali, avendone ormai consolidato una padronanza acquisita e d automatizzata, vengono percettivamente lette secondo una rappresentazione globale. Per esempio, lavarci i piedi per rimetterci dei calzini nuovi e freschi, è uno schema eseguito da una serie di step lineari ed ordinati all’interno di uno script esecutivo e adatto ad essere cominciato e concluso con successo secondo l’organizzazione logica prevista dai singoli eventi concatenati. L’automatizzazione del processo, tuttavia, viene tipicamente ricondotta dentro un orizzonte percettivo globale, dandola come per scontata, quando essa è il risultato di una condotta eseguita da un legame sequenziale “a blocchi”, e quindi può essere analizzata e prevista secondo una task analysis sul compito. Tali tecniche risultano maggiormente appropriate quando di fatto si tratta di aiutare il soggetto con autismo a sperimentarsi nel rapporto con l’ambiente, ovvero con le domande che lo stesso gli pone e quindi con le risposte e le soluzioni che può proporre ed adottare.

 

La presentazione di un compito secondo un principio di ristrutturazione per sequenza, inoltre, pone il soggetto autistico di fronte ad una prospettiva temporale ordinata lungo un rapporto fra ‘prima’ e ‘dopo’. È ampiamente conosciuta l’importanza di calendarizzare la giornata secondo le modalità più accessibili allo stile percettivo del singolo soggetto con autismo, congiunto comunque alle sue diffuse atipie dovute alla presenza della sindrome in oggetto.

 

Un compito somministrato in sequenza, generalmente, può essere scomponibile mediante due seguenti modalità direzionali e numericamente ordinate:

 

1, 2, 3, 4…. sequenza ordinale crescente

4, 3, 2, 1… sequenza ordinale decrescente

 

In entrambi i casi viene rispettato il legame sequenziale fra i singoli elementi. La differenza, naturalmente, risiede nel fatto che nella prima modalità, l’intera attività eseguita risulta coerentemente iniziata e conclusa secondo i micro-obiettivi in rapporto all’intera sequenza. Si penserà, dunque, che soltanto la prima modalità offra la possibilità di imparare qualcosa di regolare e pre-ordinato, accedendo ad una competenza di tipo logico-sequenziale. Bisogna tuttavia tenere presente a quale possibile attività si stia facendo riferimento, e se ogni azione che deve essere compiuta per concludere con successo la performance non rientri ancora fra le abilità compiute da parte del soggetto autistico. Per esempio, se per scaldare il bollitore del tè, è necessario armeggiare con sufficiente sicurezza con l’accensione e la regolazione del gas, e poiché tale attività precede versare l’acqua riscaldata ed inzupparvi una bustina, va da sé che insegnando prima ciò che è più complesso, si rischia di arrestare il progresso esecutivo su uno step ancora troppo difficile e complicato per chi richiede più tempo per apprendere quel tipo specifico di abilità, o per chi ne deve essere esentato per ragioni di forza maggiore. Quindi, la sequenza presentata numericamente non può essere letta soltanto alla luce della regolare comparsa delle singole parti in successione, è invece necessario considerare il livello di difficoltà di ciascuna componente della sequenza nel suo intero. Quindi, l’approccio da la precedenza all’aspetto qualitativo su quello quantitativo, e si impegna a calcolare ed a verificare l’intensità dell’ostacolo offerto da ogni singolo step.

 

Nell’esempio pocanzi citato,dunque, sarà preferibile insegnare l’ultimo passaggio, ovvero immergere la bustina nel tè, appena preceduto da quello più complicato dell’afferrare il bollitore e versarne il contenuto bollente e ancora prima dall’utilizzo corretto del regolatore della fiamma. L’apprendimento dell’ultimo passaggio offrirà al soggetto autistico la sensazione di aver seguito l’intero processo (di cui comunque si è occupato benché in modalità non automatica), e ciò faciliterà l’esperienza del successo, e quindi lo sviluppo dell’autoefficacia (io so di fare) e dell’autostima (io valgo come persona). Tale strategia di apprendimento a ritroso è nota come concatenamento retrogrado.

 

Si tratta di aiutare adeguandosi ad un modello che combina la rigidità/affidabilità della logica con la flessibilità volta a valorizzare la storia personale di ciascuno, reperendone risorse, interessi ed abilità peculiari.

Ovviamente, se l’impegno rimane quello di far apprendere l’intera sequenza, se ciò fosse considerato fattibile, si procederà con un apprendimento di ogni singolo step a ritroso, aggiungendo di volta in volta capacità in più nel repertorio delle competenze del soggetto con autismo, fino a che, forte dei suoi nuovi apprendimenti, potrà in completa o parziale autonomia provvedere a finalizzare la performance richiesta. L’importante è finalizzare il tutto alla capacità di attendere a compiti legati al contesto della quotidianità: comprare un giornale, cucinarsi la pasta, occuparsi della propria igiene personale e degli spazi abitativi, avere cura dell’ambiente domestico, saper chiedere aiuto quando è necessario, gestire il denaro.

 

L’esperienza è in genere sollecitata in ambito famigliare, scolastico ed extra-scolastico, e non può essere abbandonata ed interrotta perché il ragazzo viene considerato maturo in quanto ha raggiunto per esempio l’obiettivo del diploma. Sarebbe riduttivo e limitante per la continuità educativa e per il principio dello sviluppo permanente, che attende di arricchire la valigia delle competenze e delle occasioni formative di ciascuno.

 

Pertanto, gli aiuti forniti all’inizio dovranno essere progressivamente ridotti al raggiungimento di crescenti livelli ottimali di autonomia e di prestazioni efficienti. È necessario prevedere e rispettare tale prospettiva, rinunciando eventualmente all’idea che l’utente (o il famigliare, a seconda della tipologia del rapporto) sia in condizione permanente di totale dipendenza. Il lavoro con il soggetto autistico dovrà soddisfare infatti le spinte di autonomia dello stesso, e non a gratificare esclusivamente la nostra tendenza a sentirci come irrinunciabili punti di riferimento per chi presenta aspetti deficitari nelle aree dello sviluppo.

 

Un programma di riduzione degli aiuti può dunque partire da una situazione che richiede una elevata quantità di strategie di aiuto fino ad un punto in cui, ottenute e generalizzate determinate prestazioni in autonomia, il soggetto stesso assume l’iniziativa di condurre l’attività utile al suo personale sostentamento.

Uno schema possibile potrebbe essere il seguente:

 

_ Prompting fisico + guida verbale + indicazioni non verbali

_ Guida verbale + indicazioni non verbali

_ Solo guida verbale

_ Solo indicazioni

_ Supervisione partecipata

_ Iniziativa personale di fronte al setting

 

IL primo punto risulta dalla commistione fra: un aiuto fisico che illustra concretamente al soggetto come va eseguito un determinato compito, quindi afferrandogli le mani e conducendo i movimenti e le prassie in modo funzionale e adeguato; un corrispettivo verbale che presenta la modalità in esecuzione, a patto che faccia ricorso a parole semplici,  a parole chiave e consegnate in modalità vocale adeguate alla sensibilità reattiva del soggetto, al di là delle sue reali capacità linguistiche, verbali o semantiche; ed infine ulteriori aiuti che impieghino indicatori gestuali o paraverbali, sempre che facciano parte del codice di significati appreso ed interiorizzato dal singolo utente.

 

IL prompting fisico mostrerà la sua testata validità se condotto con alcuni criteri ed accorgimenti piuttosto importanti, quali per esempio afferrare il soggetto e condurne i movimenti da dietro la sua persona, affinché non associ l’inizio dell’attività e la possibilità di condurla soltanto alla comparsa e alla presenza della persona, che peraltro in modalità frontale potrebbe essere registrata come preciso stimolo routinario, con il risultato di vedere il soggetto predisposto a lavorare esclusivamente con la persona che gli offre l’aiuto. Inoltre, la presenza frontale dell’operatore costituisce in ogni caso un importante stimolo distraente all’interno del campo visuo-percettivo e attentivo della persona con ASD.

 

IL secondo step descrive quella condizione in cui, o l’affiancamento fisico non è più necessario oppure non è stato mai indispensabile. Nel terzo passaggio, il progresso prevede come sia sufficiente fornire indicazioni solo verbali, fino ad arrivare a un delicato momento di transizione in cui la sola presenza dell’operatore in un preciso setting indica alla persona con autismo che è giunto il momento di finalizzare una certa attività richiesta, e che quando queste operazioni sono fondamentalmente acquisite, il soggetto le generalizza, mostrando la capacità di eseguirle al di là della cornice abituale di riferimento, e di avviare in autonomia l’iniziativa di svolgere la procedura corretta di inizio e fine di un’attività.

 

Certo, non tutti i soggetti potranno arrivare a questo ultimo step, non tutti potranno permettersi di provvedere adeguatamente a se stessi senza ricevere aiuti, e forse ancora non tutti potranno affrontare ciò che hanno imparato nel caso in cui si modifichino le condizioni abituali, e quindi siano richieste capacità flessibili e creative di ri-adattamento e ri-lettura del problem-solving, con ipotesi di ricerca, sperimentazione ed esplorazione di nuove opzioni.

 

Attraverso tali propositi, infatti, non si vogliono avanzare teorie o prospettive miracolistiche di fronte alla forza pervasiva e invalidante che molto spesso ha la sindrome autistica, soprattutto nelle sue ricadute sul piano cognitivo-intellettivo, psico-motorio e affettivo-relazionale.

 

Quello che si vuole ribadire è piuttosto la necessità di ridurre tutti quegli inevitabili svantaggi e la portata di criticità che riguarda la dimensione del vivere autistico.

 

Magari tutto ciò può essere raggiunto con minore difficoltà se l’intervento si rivelerà precoce e fortemente personalizzato intorno alle aree di abilità emergente del soggetto trattato. Ciò non dovrà in ciascun caso esentare dal pensare che sia troppo tardi, anche qualora fosse presente una condizione cronica di lunga e storica dipendenza nella vita della persona diversamente abile.

Qualunque momento e qualunque occasione possono essere preziosi per cominciare, nel tentativo di offrire l’esperienza di qualche successo in chi vive un’esistenza troppo spesso caratterizzata dal limite, dal deficit e dalla dipendenza. Potenziare le autonomie si colloca in tal caso dentro un contesto più ampio in cui trova spazio la dignità e l’autosufficienza della persona, che riscopre se stessa, capace finalmente di comunicarne e coronarne il suo valore.

 

 

dott. Nuccio Salis

(Pedagogista clinico, Counselor socio-educativo, Formatore analitico-transazionale, Educatore professionale)

 

 

Brevi riferimenti bibliografici:

 

_ Ianes D. (a cura di), Autolesionismo, stereotipie, aggressività”, Trento, Erickson, 1992.

_ Ianes D. / Zappella M., “L’autismo. Aspetti clinici e interventi psicoeducativi”, Trento, Erickson, 2009.

 

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