6 LEGGENDE SUI DSA. Credenze e letture “popolari” sui processi atipici delle abilità di base dell’apprendimento

Pubblicato il da Nuccio Salis

In questo articolo, mi impegno a chiarire al pubblico una serie di credenze non veritiere e controverse che molto spesso si riscontrano nel sentire e nella percezione comune, ogni qualvolta si affronti il tema dei disturbi specifici dell’apprendimento.

 

In questo modo desidero anche invitare e rendere partecipi coloro che vorranno offrire un ulteriore contributo a quanto esplicitato da questo mio breve intervento. Le inesattezze e le imprecisioni finiscono per creare sempre un alone di leggenda che si sovrappone e si confonde con la verità, spesso offuscandola e rendendola non accessibile anche per un atteggiamento di diffidenza che ormai è stato orientato per abitudine ad accogliere la sola e unica versione possibile dei fatti.

 

Succede in tantissimi campi della scienza e del sapere umano.

 

Vediamo insieme quali luoghi comuni più o meno inverosimili si sono prodotti nell’ambito della conoscenza intorno alle persone connotate dai sempre più osservati e discussi disturbi specifici dell’apprendimento.

 

 

 

_Non sanno (o non possono) esprimersi correttamente

 

È solito associare il termine ‘dislessia’ ad anomalie dell’eloquio e del linguaggio verbale, come se fosse sufficiente esclusivamente una tipologia legata alle disfunzioni fonologiche per definire il disturbo in oggetto. Sarebbe utile sapere che le espressioni atipiche relative all’aspetto fonetico rappresentano una delle possibili forme con cui si manifesta la dislessia, ma non certamente l’unica, dal momento che sono distinte ed identificate manifestazioni variabili a seconda del circuito processuale imputato (visuo-spaziale, attentivo, uditivo, cerebellare). Pur tenendo presente l’eterogeneità delle forme con cui si presenta un disturbo specifico dell’apprendimento, a causa della frequente comorbilità fra le diverse caratteristiche delle aree dominio-specifiche deputate al controllo di precise funzioni, non sarebbe comunque corretto attenersi alla spiegazione più ricorrente dovuta ad una visione eccessivamente popolare e pressappochista.

 

La complessità che si evince dall’osservazione e dal rapporto in vivo con un DSA, induce a ridimensionare certe teorie imprecise ed imprudenti, per entrare invece nel merito di espressioni fenomeniche che meritano il nostro sguardo aperto e indagatore, pronto a saper cogliere anche ciò che eventualmente prima non veniva contemplato, pur verificandolo e sottoponendolo a disamina con un approccio neutro e rigoroso.

 

Persone e studenti con un certificato (o ancora sospetto) DSA, potranno invece godere di una programmazione adeguata alle loro peculiari modalità di apprendimento, mostrando tutta la loro capacità ed il loro potenziale espressivo attraverso cui possono giungere a padroneggiare efficaci forme di comunicazione, dando alle medesime una funzione di integrazione che permetta una corretta e costruttiva gestione delle relazioni interpersonali.

 

 

 

_Imparano solo se usano il computer

 

Un’altra idea piuttosto diffusa è che le persone a cui è stato diagnosticato un DSA non possono acquisire conoscenze e sviluppare un repertorio di abilità se non ricorrendo al computer. È molto probabile che questo falso mito sia l’esito di una didattica contemporanea che si serve sempre più di strumenti e dispositivi anche a tecnologia avanzata, per favorire processi di apprendimento rendendone l’esperienza più motivante, significativa, piacevole e dunque meno faticosa. Tali strategie non costituiscono (o non dovrebbero costituire) per principio una prerogativa didattica diretta a compensare soltanto le modalità non comuni di apprendimento. Se fosse così, allora parrebbe vero che i mezzi ad “alta tecnologia” sarebbero di esclusivo accesso alla sola parte della popolazione studentesca raggiunta da documentazione medico-clinica che accerta la presenza di varie entità e livelli di difficoltà nell’ambito delle prestazioni sul compito (sia in contesto scolare che extra-scolare).

 

Dentro un paradigma di ‘didattica inclusiva’, ci si sta assumendo l’impegno di superare questo equivoco ad effetto discriminante fra sottotipologie di studenti all’interno di uno stesso gruppo-classe. Il principio della ‘compensazione’ diventa così un indirizzo utile da individuare per poi appellarsi, se necessario, ad una risorsa tecnologica da impiegare per facilitare il percorso attraverso cui si impara e si trasferiscono le nozioni verso un territorio anche pratico ed esperienziale. Questo sdogana anche un’altra falsa mitologia: quella legata alla convinzione che l’apprendimento si realizzi compiutamente soltanto se c’è fatica, ore di studio impiegate e livelli di saturazione che ne attestano l’impegno. Col tempo, però, si è progressivamente messa in dubbio questa visione così rigida, per poter ammettere esperienze di apprendimento più leggere, snelle, accattivanti e denotate dall’efficienza. Si deve subito sgomberare tutto ciò dall’immediato pregiudizio che attribuisce al percorso facilitato l’impoverimento di contenuti o l’assenza del problem-solving. Si tratta invece di elevare il rendimento e l’efficienza dell’apprendimento, fruendo di strumenti che possono consentire di ottimizzare la performance e di raggiungere risultati auspicabili espandendo la zona di sviluppo prossimale, che diviene così territorio di ricerca, di potenziamento e di messa alla prova delle proprie abilità.

 

D’altra parte, non accettare che un itinerario di apprendimento sia più flessibile e meno irto di ostacoli perché si ricorre all’impiego di strumenti compensativi, sarebbe come pretendere che un disabile motorio si muova senza sedia a rotelle, o che ad un vecchietto che cammina reggendosi a fatica venga sottratto della stampella, perché “anche loro devono fare come tutti gli altri, se no non imparano”. Questo è ciò che troppo spesso si sente ancora pronunciare, in merito alle difficoltà circoscritte evidenziate dalle persone con DSA.

 

Gli ausili tecnologici non sono affatto scorciatoie per non imparare, ma rappresentano possibilità ulteriori per pianificare percorsi alternativi, aprirsi ad opzioni variegate, prevedere un ventaglio eterogeneo di domande e di soluzioni; a sollecitare proprio quelle risorse creative, metacognitive e ‘laterali’, che l’insegnamento tradizionale tende invece a limitare. Tutto ciò si muove all’interno dell’ottica della tutela al diritto di studio, come previsto dal Decreto Ministeriale 5669 del Luglio 2011, a rinforzo dei princìpi stabiliti dalla precedente Legge 170/2010.

 

Accettare e disporre di una strumentazione didattica adeguata all’altezza delle richieste e delle caratteristiche individuali di ciascuno, è un passaggio significativo e determinante verso una nuova pedagogia ricca di contributi e di una tendenza ad evolversi e sperimentare nuovi percorsi.

 

 

 

_ Hanno un’intelligenza superiore

 

Questo è certamente uno dei luoghi comuni più inflazionati e che più di tutti ha fatto presa nell’immaginario collettivo. Forse, per la necessità di attribuire un credito di intelligenza con cui compensare la natura dei disturbi evolutivi, si è andata diffondendosi la credenza ingenua su presunte doti intellettive superiori anche da parte degli individui con DSA, di fatto mai validata con schiacciante e indiscutibile evidenza. La suggestiva tendenza ad ascrivere caratteristiche oltre la media, congiunta al fascino romanzato della atipicità, riesce ad alleviare sia una sorta di delusione e legittime preoccupazioni da parte di genitori con bambini interessati al DSA, sia a classificare i fenomeni non comuni dentro categorie preconcette e quindi semplificate, che sollevano dall’impegno di ricercare la vera natura delle strutture e dei processi di ciò che ancora richiede di essere indagato ed approfondito con maggiore cura e serietà.

 

Suscitare stereotipi costituisce una tentazione da cui sembra troppo difficile sottrarsi, perché ciò suscita infatuazioni di tipo poetico-cinematografico, ed allo stesso tempo fa volgere lo sguardo su ciò che fa comodo credere, con la conseguenza di disinvestire se stessi dal proprio obbligo di analizzare la questione con ipotesi più attendibili ed associati strumenti affidabili di analisi e di ricerca.

 

Ciò che più realisticamente si può considerare è dovuto al fatto di dover constatare ripetutamente come la scelta di certi percorsi logico-operativi adottati nelle strategie solutorie, da parte di soggetti con DSA,  si manifestino volentieri con caratteristiche di originalità e divergenza. Si riporta e si riferisce spesso delle loro capacità di re-inquadramento di una situazione problemica tipo. Ciò è dovuto in larga parte all’obbligo di ricercare itinerari alternativi, dal momento che trovano difficile aderire ai percorsi già conosciuti e collaudati dalla moltitudine. Ciò naturalmente non deve nemmeno originare un ‘falso negativo’, attribuendo la creatività strategica ad un tentativo dato da circostanze di necessità, piuttosto che da una sincera attitudine alla sperimentazione esplorativa al di là di soluzioni già note, sicure e ripetute.

 

Ciò costituirebbe l’ennesimo pregiudizio che non favorisce un disincantato approccio didattico verso i soggetti con DSA, i quali invece, come tutti, necessitano di essere accolti e soddisfatti nell’ambito dei loro bisogni educativi speciali, senza che tale espressione si declini secondo l’ennesima accezione clinica di ‘problematicità’.

 

 

 

_ Hanno problemi di integrazione sociale

 

Un possibile quanto spiacevole effetto collaterale dovuto alla presenza di un DSA, consiste nel verificare sulla persona interessata un’esperienza di non facile gestione nell’ambito dei rapporti sociali. È frequente che sia soprattutto lo studente con DSA a sviluppare un vissuto interno di emozioni e stati d’animo con cui è tutt’altro che facile conviverci.

 

Le possibilità di aprire rapporti segnati dal conflitto è estremamente elevata. Specie se il disturbo non viene riconosciuto, e le scarse prestazioni vengono imputate arbitrariamente alla presunta pigrizia del soggetto, è più che probabile che si inneschino delle tensioni fra bambino e genitori, bambino e gruppo-classe, bambino e insegnanti. Ne deriva in pratica una rete relazionale che non è in grado di accogliere, di comprendere, di aiutare e di supportare, ma anzi si compone proprio guidata un micidiale cocktail di frustrazioni, rabbia, disistima e senso di mortificazione, provati dal soggetto con DSA, e che lo rendono incapace di agire con efficacia e con adeguata resilienza, abbandonandosi piuttosto alla rassegnazione e al disfattismo; riempiendo le statistiche del dropping out scolastico o delle varie forme di disagio e devianza giovanile.

 

Ciò costituisce l’occasione preziosa di ribadire come non sia sufficiente guardare il DSA come oggetto di studio comprensibile soltanto attraverso l’approccio evidence based ad esempio delle neuroscienze, ma come a questi decisivi contributi, a cui va riconosciuto il fatto di rivelarsi fondamentali nella pratica dell’identificazione eziologica e della spiegazione reale di determinati processi e funzioni, va aggiunta e salvaguardata l’attenzione osservativa che si deve dedicare al ruolo attivo dei fattori ambientali.

 

È proprio la diversità e la complessità delle dinamiche con cui si intrecciano e si combinano le variabili esogene, a costituire la particolarità della forma espressiva del DSA e quindi a delineare la specificità dell’orizzonte dei bisogni educativi della persona.

 

Il ruolo dei fattori ambientali diviene dunque cruciale, e pertanto il fenomeno deve essere letto all’interno di una cornice epigenetica, per poter prevenire e rimuovere ostacoli secondari e congiunti che si configurano nel vivo dell’esperienza vissuta dal soggetto con DSA.

 

Questo tipo di visione ci obbliga ad assolvere ad una precisa e valida funzione educativa e non soltanto meramente tecnico-didattica. È il richiamo alla complessità dell’intervento che ci può aiutare ad erogare un servizio realmente valido, efficiente e costruttivo.

 

 

 

_ Tutti i mancini diventano studenti DSA

 

Complice un’eredità dovuta ad un cascame inquisitorio sul soggetto mancino come adepto del maligno, con tutta la più ampia e spregevole accezione dell’essere “sinistro”, tale credenza anacronistica è decaduta per via delle conoscenze scientifiche in merito, ma a quanto pare conserva ancora suggestive remore dalle quali spesso si prende tristemente atto dei continui tentativi di correzione per forzare il mancino all’uso della “mano bella”. Ne conseguono inevitabili difficoltà a carico della fluidità lineare richiesta dal gesto grafo-tracciante. A seguito di questo, diventa così facile e immediato accoppiare le anomalie e le irregolarità micro-cinetiche al fatto di eseguire le dinamiche scrittorie con la mano sinistra. Si spiega così in parte l’accostamento falsamente positivo e l’apparente rapporto di rilevanza fra la disgrafia e l’attitudine a realizzare la scrittura con la mano sinistra, anche qualora questa costituisse la naturale dominanza che porta il soggetto ad attivare le condotte di afferramento mediante le sue spontanee prassie associate alle rispettive strutture neurofunzionali.

 

Pur partendo dal presupposto che nell’insegnare i rudimenti della scrittura ad un soggetto mancino, rimangono da attuare una serie di accorgimenti per sostenerne la funzionalità e prevenirne goffaggini ed impedimenti, e che tali contromisure sono ormai da tempo indicate e discusse nella letteratura scientifica dedicata all’argomento dei DSA, ciò non toglie come risulti improprio invertire le naturali sedi neuroanatomiche deputate al controllo esecutivo motorio finalizzato alla scrittura.

 

Sarebbe a questo proposito utile ricordare che la maggior parte delle persone (siano esse destrimane o mancine) possiede l’area di controllo della procedura scrittoria nell’emisfero sinistro del cervello. I destrimani arrivano fino al 95%, ed i soggetti mancini fino al 70%, interessando il 25% delle volte entrambi gli emisferi.

 

Si tratta dunque di prendere coscienza che ancora una volta esistono caratteristiche che prescindono dalle scelte personali di ciascuno, e che queste costituiranno già dei criteri di difficoltà esecutiva e degli elementi di ostacolo nell’avvio e nell’acquisizione del regolare e condiviso procedimento scrittorio.

 

 

 

_ I DSA non possono mai “guarire”

 

Più che davanti ad un falso mito, ci troviamo stavolta di fronte ad una frase fatta che merita di avere una considerazione che aiuta a chiarire come si impone realmente la questione.

 

Se come sembra oramai consolidato dalle scoperte nel campo delle neuroscienze, i DSA si presentano come processi dovuti a precise atipie cerebrali (sia nella mappatura anatomica che nell’attività funzionale), tali fenomeni, seppur di portata circoscritta alle cosiddette abilità scolari di base, accompagneranno l’individuo che ne è caratterizzato lungo l’intera durata della sua esistenza, facendo emergere aree di problematicità critica che richiederanno la necessità di supplementi e supporti con funzione compensativa.

 

Non resta cioè che trovare a ciascuno la propria “stampella”, dal momento che non c’è nessuna malattia propriamente detta da superare, semmai dei percorsi di fronteggiamento , di scelta e strategie da costruire in merito ad obiettivi personalizzati. Chi verrà maggiormente incoraggiato, sostenuto precocemente e nella maniera più adeguata, e chi magari non è interessato da un quadro severo di compromissione o di comorbilità con altre situazioni cliniche, disporrà di maggiori probabilità di scoprire e sperimentare da sé forme di adattamento efficace; in pratica, come si dovrebbe dire correttamente, trovando il modo di autocompensarsi. Presso tali soggetti, infatti (circa il 30% della totalità fra quelli ufficialmente riconosciuti), sarebbe addirittura difficile dall’esterno riconoscere differenze fra persone normotipiche e individui con DSA sufficientemente compensati. Si rispecchia, in definitiva, un vero e proprio quadro di diversabilità propriamente detta.

 

 

Tutti questi punti, in ciascun caso, rimandano a mio avviso all’importanza della conoscenza per derubricare falsi miti e credenze ingenue. Disponiamo allo stato attuale delle cose, della possibilità di offrire e promuovere piani di aiuto efficaci e differenziati.

 

È necessario assumersi l’impegno di evitare scorciatoie concettuali e letture superficiali che non rendono conto della complessità del fenomeno, che deve essere invece esplorata in tutte le sue parti, col fine di garantire i diritti naturali ed acquisiti che devono accomunare i soggetti con DSA all’intera popolazione di coloro che sono impegnati nei percorsi della carriera scolastica e formativa, col supremo fine politico e sociale di tutelare concretamente le pari opportunità fra tutti coloro che si pongono obiettivi sia di emancipazione singolare che di partecipazione attiva anche a vantaggio della comunità.

Le elevate e nobili implicazioni educative che questo tema suscita, delega a ciascun operatore responsabile impegnato in concreto sull’argomento in oggetto (insegnanti, educatori, clinici, genitori), ad espandere e potenziare la propria padronanza strumentale a favore di un trattamento capace soprattutto di rimettere al centro la persona, parificando dignità e valore anche a chi, storicamente, per via della sua diversità, si è già visto troppe volte privato della medesima considerazione.

 

In pratica, occuparsi di DSA significa non limitarsi al reperimento di risorse e strategie meramente didattiche, ma prendere atto che questo compito che si assolve coincide con una vera e propria battaglia più ampia, una battaglia che ci vede schierati a difesa di importanti conquiste sul piano di elementari diritti sociali, civili e politici.

 

 

dott. Nuccio Salis

(Pedagogista clinico, Counselor socioeducativo, Formatore analitico-transazionale, Educatore professionale)

 

Suggerimenti bibliografici:

 

  • Bravar L. et al., “Le difficoltà grafo-motorie nella scrittura”, Trento,

Erickson, 2014.

 

  • Cornoldi C., “Difficoltà e disturbi dell’apprendimento”, Bologna, Il Mulino, 2007.

 

  • Ianes D., “Bisogni Educativi Speciali e inclusione”, Trento, Erickson, 2005.

 

  • Lorusso M. L., “Che cos’è la dislessia”, Roma, Carocci, 2016.

 

  • Pontecorvo C. (a cura di), “I contesti sociali dell’apprendimento”, Milano, LED, 1995.

 

  • Venturelli A., “Dal gesto alla scrittura”, Milano, Mursia, 2004.

 

 

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