AUTISMO IN FAMIGLIA. IL sostegno ai genitori nel ruolo educativo verso i disturbi dello spettro autistico

Pubblicato il da Nuccio Salis

Fra le varie tipologie e modelli famigliari di cui siamo chiamati a prenderci cura, quelli che convivono con un loro membro affetto da disordini dello spettro autistico, risultano spesso fra le più complesse da gestire. La particolarità di queste famiglie consiste sovente nel fatto che la loro storia affettiva e relazionale con il figlio raggiunto dalla diagnosi di autismo, sia stata connotata già in precedenza da una serie di difficoltà comunicative e di osservazione di atipicità espressive diversamente interpretabili, fino a ricevere la certezza di un referto diagnostico che conferma ogni sospetto iniziale.

Questa esperienza è notoriamente caratterizzata da un evento psicologico a marcato impatto emotivo, in grado di segnare e ferire gravemente la persona che riceve tale informazione. Questo fenomeno è oramai talmente riconosciuto che fra le abilità del medico è stata inclusa anche la modalità di trasmissione e consegna di un’informazione diagnostica infausta, tenendo conto di ogni prospettiva realistica e della sensibilità di ciascun paziente ( in questo caso indiretto) che riceve una notizia attesa.

Le indagini che hanno condotto a rilevare gli effetti della ricezione della diagnosi di autismo, presso i genitori del soggetto interessato, hanno da diverso tempo messo in luce diverse categorie di processi cognitivo-emozionali che sembrano essere quelli più tipici e più diffusi in queste circostanze. Ecco quelle decisamente più riscontrate e soprattutto in ordine di comparsa:

 

.a) Shock. Ricevere la notizia che in parte era attesa, spezza anche quell’ultimo flebile filo di speranza che fino alla fine avrebbe voluto sentire qualcosa di diverso. Conoscere con certezza le coordinate nosografiche che spiegano le bizzarrie comportamentali del proprio figlio affetto da autismo, se da una parte offre criteri di collocazione che aiutano a dare un nome alle cose, a svelare in parte certi misteri, salvaguardando dall’orrore umano di ciò che non si conosce, d’altra parte rappresenta una nuova e destabilizzante sfida che proietta più o meno all’improvviso su una diversa piattaforma di vita, immettendo nuove domande (spesso senza immediata risposta), e producendo un turbinìo tormentato di dubbi, paure e duro confronto coi propri limiti e le proprie imperfezioni. Ciò che si viene a profilare costituisce un nuovo disegno del proprio orizzonte esistenziale, costretto a reinventarsi percorsi e modelli alternativi, demolendo abitudini e stili sicuri, prevedibili e consolidati. Si potrebbe in parte ammettere di diventare a propria volta “autistici”, dal momento che si viene spaventati profondamente dai cambiamenti e dall’ipotesi di una nuova riorganizzazione di ciò che ci è oramai noto e soggetto al controllo.

 

.b) Rabbia. Segue come da copione quasi subito dopo a un meccanismo di rifiuto e negazione, proprio come in un classico percorso di elaborazione del lutto. La notizia ricevuta scardina difatti ogni prospettiva di stabilità, e può esporre ad un sentimento di intensa vulnerabilità, attraverso cui si vorrebbe certamente dare a qualcuno la responsabilità di tutto questo, ma non trovando capri espiatori, ecco che ci si colpevolizza, sentendosi irrimediabilmente frustrati, impotenti e incapaci, “sbagliati” per aver generato un bambino che “non è come tutti gli altri”. L’impatto a caldo arriva come uno tsunami che non si può in alcun modo arginare, e che devasta e rivolta tutto quello che incontra lungo il suo impetuoso cammino. Bisogna pertanto considerare questa emozione all’interno di un calderone più complesso di smottamenti interiori fra i cui ingredienti troviamo soprattutto la vergogna e la colpa. L’espressione accettata per questo tipo di esperienza è: allagamento emozionale.

È necessario che in questa fase vi siano importanti ed efficaci contenitori di sfogo per poter trasformare una rabbia distruttiva in una forma di rabbia come punto di inizio per poter prendere iniziative di stampo costruttivo. Il tempo ed un sostegno adeguato che affianchi questo percorso, aiuteranno la famiglia a muoversi secondo paradigmi più validi e costruttivi.

 

.c) Speranza. Esiste un frangente di tempo in cui, passata la tempesta principale, la famiglia comincia a rimodellare il senso e la portata del proprio agire, ad accettare e sviluppare le modifiche necessarie ad accogliere al meglio il loro membro raggiunto da un quadro di ASD. Tale delicatissimo passaggio può anche essere supportato nel caso in cui la famiglia da sola non riesca ad attingere alle sue risorse e specie se nel frattempo (come sovente si verifica) il nucleo famigliare si è disgregato in seguito all’avvenimento, riducendo significativamente le capacità di adattamento proattivo di ciascuno dei singoli membri, o per giunta producendo circostanze ed ambienti inadatti per il bambino sotto ogni profilo educativo.

 

 

.d) Riorganizzazione attiva. La famiglia che raggiunge questa fase ha superato e integrato le precedenti, fino dunque a sviluppare comportamenti che le permettono di reagire secondo modalità efficaci alle diverse difficoltà con cui spesso deve imbattersi. Si tratta di famiglie che accolgono volentieri percorsi di parent-training per reperire ed accentuare le loro risorse, che sollecitano la creazione di eventi a tema, che si mostrano solidali e partecipanti verso famiglie con cui condividono simili vissuti, che sono presenti nel territorio con iniziative che sensibilizzano sul tema, che fondano o prendono parte a progetti di mutuo aiuto. Non tutti i nuclei famigliari raggiungono naturalmente un livello di fronteggiamento così valido e propositivo. Una serie di complesse variabili intrecciate può favorire o meno il decorso verso un atteggiamento di questo tipo. La possibilità di ricevere aiuti è fra i fattori principali che possono guidare verso il raggiungimento di un tale importante traguardo.

Per tale ragione diventa fondamentale e opportuno sostenere ogni nucleo famigliare ad uscire dall’isolamento e infrangere il muro dell’autoreferenzialità. Vi sono almeno tre punti critici su cui lavorare per questo aspetto:

 

.1 ) Rivendicare il diritto al tempo libero e alla serenità di se stessi. È necessario superare l’idea deleteria di doversi immolare per il proprio figlio in condizione di bisogni speciali. E ciò proprio in direzione del doversi di volta in volta ricaricare per poter a maggior ragione ritrovarsi all’altezza del ruolo educativo di cui si è investiti come genitore. Questa è la condizione di base attraverso cui si può garantire l’espressione di una genitorialità efficace, costruttiva e priva di sensi di colpa, conscia delle sue zone di fragilità e pronta al tempo stesso nel volerle affrontare.

 

.2) Accettare aiuto. Sarebbe di grande vantaggio e merito superare il terribile equivoco che il ricorso all’aiuto professionale sia segno di fallimento e conferma della propria inefficienza. È vero esattamente il contrario! Riconoscere la necessità di un aiuto esterno significa aver fatto con lucidità i conti con le proprie fragilità e l’esistenza legittima dei propri limiti. Significa cogliere occasioni di condivisione e di crescita, nell’ottica del benessere verso se stessi ed i propri figli.

 

.3) Fare rete. La condivisione delle proprie storie e delle proprie risorse può essere di valido aiuto per chi si trovasse in condizioni di maggiori difficoltà. La “multicomponenzialità” delle figure e delle personalità co-partecipanti all’evento educativo allarga il repertorio degli strumenti e delle opzioni di intervento. L’approccio cosiddetto di “network” favorisce il confronto e il dialogo aperto con vari soggetti dai quali attingere dalle proprietà specifiche delle sue esperienze, titoli ed attitudini, sia a livello formale che informale.

 

Vi è da tenere in viva considerazione ogni fattore (oggettivo e percepito) che interferisce nella generazione di una relazione soddisfacente e funzionale fra genitori e figli con sindrome dello spettro autistico. Fra le principali difficoltà che i genitori riportano, sono da annoverare in modo particolare tutti quegli elementi che tendono a sottolineare gli ostacoli al processo comunicativo ed alla reciprocità. Circa la metà dei bimbi con ASD non si esprime mediante linguaggio verbale, e se lo fa, questo si manifesta con alta probabilità mediante stereotipie, bizzarrie fonetiche paraverbali  o suoni criptici. Per tale ragione, fra le contromisure compensative per fronteggiare questa diversa abilità comunicativa, sono stati ideati sistemi di comunicazione aumentativa e alternativa, fra cui il più noto è il PECS (Pictures Exchange Communication System), il quale prevede un meccanismo di scambio di immagini e simboli che il bambino impara ad adoperare per relazionarsi con i referenti che gli sono utili ed avanzare le sue richieste.  

Vengono poi messi in evidenza i repertori comportamentali di tipo problemico, ovvero quegli schemi di azione inadeguati che vengono messi in atto in conseguenza a qualche sollecitazione che è necessario riconoscere anche per compiere una successiva analisi funzionale in grado di rilevare la motivazione originaria che scatena il comportamento improprio. Tale area è di particolare complessità nella gestione del bambino, in quanto richiede anche notevoli sforzi e dispendi energetici sul piano psicofisico, per contenere, contrastare e comprendere quelle attività stereotipe che producono danni, ostacoli, stigmi sociali e che riducono la qualità di vita e la sana inclusione del soggetto nel suo ambiente di riferimento.

Altro aspetto che lascia fortemente in crisi i genitori si evince dai loro racconti in merito alla constatazione di una ridotta o inesistente capacità empatica, e quindi di mancata o insufficiente produzione di comportamenti prosociali diretti a sostenere il prossimo, ad incoraggiare, a riconoscere l’alterità ed a condividerne le vicissitudini, sia dal punto di vista appunto empatico-emozionale che sotto il profilo della decodifica e comprensione degli stati rappresentazionali interni di ciascuno (teoria della mente).

A fronte di tutto questo, fra le loro maggiori preoccupazioni, i genitori elencano l’angoscia per il futuro del proprio figlio, specie quando comincia a divenire anagraficamente adulto, ad uscire dal circuito dell’istruzione scolastica, mentre loro seguitano ad invecchiare ed a sentire che vengono meno le forze. Naturalmente ciascuna singola storia famigliare può mitigare o rafforzare la portata di tale problematica, in seguito a un’articolata serie di fattori che non è nemmeno facile prevedere e controllare del tutto.

È in base a tutto queste considerazioni che si devono avanzare strumenti di formazione per il rilancio e la ri-qualificazione di un ruolo genitoriale efficace che sia in grado di fronteggiare la numerosità e il livello delle difficoltà a cui si è chiamati in veste delle proprie funzioni.

Esistono progetti che includono difatti nei protocolli di intervento anche il sostegno alla famiglia attraverso il percorso strutturato del parent training.  

Questo programma è configurato con il proposito di offrire supporto e risposte ai dubbi sollevati da genitori preoccupati, disorientati e spesso svuotati di senso. La finalità consiste nel reperire, accrescere ed amplificare le risorse che ciascuna famiglia è in grado di attivare e di cui già dispone, e che magari non sono state mobilitate con sufficiente efficienza, oppure sono state blindate da atteggiamenti generali di sfiducia e di disistima soprattutto verso se stessi. Il PT mira infatti a corroborare il pensiero riflessivo e diretto alla soluzione, ad aumentare il desiderio e la volontà di essere presenti a se stessi con le proprie realistiche possibilità ed attitudini.

In linea molto sintetica e generale, tale approccio prevede anzitutto di considerare ciascuna famiglia come un nucleo particolare, con una propria storia ed un proprio background unificato che richiede da parte del consulente una capacità ricettiva e di ascolto molto aperta e in grado di cogliere ed accettare incondizionatamente le coordinate culturali della famiglia, da cui derivano di conseguenza i loro atteggiamenti e le loro modalità di confronto con la realtà. La stessa viene resa attivamente responsabile e partecipe della propria biografia, e quindi stimolata a ricercare i suoi punti di forza, identificando l’ordine delle priorità e dei bisogni che ritengono indispensabili, e ricercandone in concreto la realizzazione.

La famiglia va orientata a sviluppare la capacità di leggere con la massima obiettività possibile le caratteristiche di un’espressione problemica con cui devono confrontarsi. I genitori devono essere guidati ad assumere un atteggiamento osservativo il più possibile descrittivo e quindi a ricercare e sperimentare i modelli di risposta più idonei, e soprattutto sincerarsi che vengano mantenuti e generalizzati nel tempo, dando alla famiglia la possibilità di sapere agire in tutti i contesti in cui è presente il figlio che esperisce comportamenti problematici. Questo aspetto è di notevole importanza soprattutto dal momento che diversi nuclei famigliare a volte fanno delle rinunce per non ritrovarsi a dover gestire in pubblico le improvvise intemperanze del proprio figlio. Impadronirsi di competenze per la gestione comportamentale dei propri figli con autismo, avrebbe il significato di salvare la famiglia da un indotto e infelice isolamento.

Per questo ordine di motivi, lo specialista che affianca e segue il percorso di crescita famigliare dovrà accertarsi che la stessa stia riuscendo a sviluppare requisiti e competenze utili  mirate alla realizzazione dei propri obiettivi essenziali. Egli dovrà monitorare in itinere i progressi che la famiglia sta registrando, facendo emergere anche limiti e difficoltà. Lo specialista dovrà orientare il nucleo famigliare a confrontare la propria situazione di partenza con quella attuale, a riconoscerne vantaggi, ricavi ed anche quali sono state eventualmente le rinunce ed i rimanenti ostacoli. In funzione delle richieste speciali e delle fasi di formazione in cui si trova la famiglia, questo confronto potrebbe avvenire sia dentro un gruppo a tema che condivide situazioni speculari, oppure in uno stadio avanzato dove la famiglia ha raggiunto un proprio nuovo equilibrio ed è consapevole di quanto questo possa essere soggetto ad ulteriori ritocchi e trasformazioni.

Quando si arriva a un tale punto, e che definisce la zona culminante di un cammino di maturità personale ed operativa, significa anche che la famiglia ha collaborato nel compito di affrontare anche i propri “fantasmi” e le proprie zone d’ombra. Significa anche che si è interagito nel profondo con la molteplicità e la dominanza di ciascun stile genitoriale, indagandone e valorizzandone gli aspetti più funzionali.

 

Sulla base di queste considerazioni, le caratteristiche di un intervento psicoeducativo diretto al trattamento di disturbi dello spettro autistico, dovrebbe puntualizzare la necessità della collaborazione col nucleo famigliare, per agire in un contesto di multidisciplinarietà.

Ciò non trascura naturalmente che ciascuna famiglia dovrà confrontarsi con la forza d’urto di una diagnosi non sempre foriera di buone prospettive.

In merito a tale specifico punto, è necessario discorrere delle caratteristiche di una diagnosi, che possono essere annoverate nei seguenti criteri:

 

.) Precocità. La segnalazione e di seguito il riconoscimento del problema dovrebbero seguire un iter temporale adeguato alla risposta attraverso cui si impegnano quelle contromisure considerate o provate come efficaci nell’ambito della sindrome identificata. Riconoscere tempestivamente le coordinate disfunzionali che delineano la presenza di aspetti problematici, significa attivare con ragionevole puntualità tutti quegli strumenti che possono essere investiti nell’ambito dell’intervento operativo, in una direzione di potenziamento delle aree emergenti, di conservazione delle abilità più consolidate e di prevenzione di espressioni problemiche. Ciò può diventare maggiormente probabile se appunto vengono per tempo colti certi preziosi indicatori che presegnalano la presenza ed il futuro e imminente sviluppo di un’espressione atipica di natura clinica.
La precocità è quindi un fattore decisivo, che richiede anche molta maturità e consapevolezza scientifica nell’uso delle procedure di osservazione e rilevazione di tutti quei preziosi indizi precursori che sembrano irrimediabilmente volgere verso un legittimo sospetto che apre agli approfondimenti e agli accertamenti utili per stabilire l’eventuale presenza di un quadro nosologico di tipo problemico. Non si tratta dunque di lanciarsi prematuramente in ipotesi ingenue o ripescare trafelate conclusioni dovute alle etichette e alle nomenclature cliniche più in voga nel periodo. Nemmeno, di contro, trascurare importanti tratti disturbanti che si manifestano a preludere un infausto esito futuro sulla lettura dei vari aspetti multisistemici di disfunzionalità.

Quindi, dire precocità non significa dire prematurità e nemmeno tardività ; vuol dire piuttosto usare l’opportunità di un giusto riferimento temporale in grado di anticipare l’espressione recrudescente del problema e di cominciarne la presa in carico nel periodo più idoneo.

Per qualificarne la sua importanza ed il suo efficace impiego è necessario investire sulla formazione delle varie figure professionali che, a vario titolo e grado, sono coinvolte nel difficile processo dell’osservazione e delle modalità più adeguate di intervento basato su bisogni speciali.

 

.) Intensità. Un trattamento può risultare efficace quando è applicato con costanza e continuità, all’interno di una logica coerente in linea con i presupposti teorici e pratici che lo configurano. I tempi di consolidamento e ritenzione di nuovi schemi di adattamento richiedono perseveranza e ripetizione, e la stessa efficienza dell’apprendimento è fortemente legata all’esposizione e alla pratica dell’abilità che si intende raggiungere e sviluppare con maggiore efficienza. Anche se non vi è una generale concordanza sulle unità temporali standard che dovrebbero essere applicate all’interno di un percorso che affronta la natura dei disturbi pervasivi e permanenti dello sviluppo, è comunque piuttosto accettata l’idea che un trattamento debba prevedere una certa regolare persistenza, senza lasciare troppi vuoti temporali, i quali potrebbero non favorirne i processi di assestamento e definizione delle nuove competenze in corso di accrescimento.

Alcune metodologie indicano con precisione i tempi delle unità di intervento nel setting educativo. È il caso del trattamento mediante terapia  ABA (Applied Behavior Analysis), che programma unità quotidiane che nella fase intensiva possono anche occupare un tempo di 5 ore al giorno.

Altre tipologie di intervento possono considerare tempi di intervento minori, e comunque oltre che investire sulla calendarizzazione cronologica del tempo, in misura quantitativa, rendono conto anche di come sia necessario disporre di un adeguato equipaggiamento didattico congiunto a importanti obiettivi evolutivi che si intende potenziare e raggiungere.

 

.) Ecologia. L’intervento centrato sulla persona giustifica ancora di più la presa in carico di tutti gli aspetti dell’individuo in un’ottica olistica che considera il legame attivo e interattivo fra le strutture e i processi del Sé in continua e dinamica interconnessione con tutti i fattori e le determinanti ambientali presenti nella mappa relazionale della persona. Sarebbe infatti un grossolano equivoco percepire il trattamento individualizzato come un approccio diretto a isolare la persona da tutti i suoi nodi interazionali con i complessi e vari elementi dell’ambiente. Sono anzi proprio questi gli elementi vivificanti dell’esperienza di crescita e di confronto ri-costruttivo con il territorio sia fisico che psicologico con cui ci si relaziona, offrendo a se stessi e al tempo stesso al di fuori, importanti stimoli di ridefinizione del proprio articolato ritratto identitario.

Diventa dunque essenziale contemplare il rapporto ininterrotto e arricchente fra la persona e l’ambiente che produce e riceve al tempo stesso assidue sollecitazioni, in un continuo meccanismo di rimandi e re-interpretazioni che collocano ciascuno all’interno di un processo da cui ricava le coordinate per la crescita e la configurazione del Sé.

Un trattamento all’altezza della sua statura scientifica è soprattutto in grado di affermare la valenza formativa che intercorre nel rapporto fra la persona e il suo ambiente, dal momento che entrambe queste entità si co-formano promuovendo reciproche risposte di adattamento.

 

.) Individualizzazione. Chi si occupa di soggetti con sindrome autistica ha imparato certamente a constatare come le caratteristiche comuni che ci aiutano a riconoscere e classificare tale manifestazione, devono al tempo stesso misurarsi con la smisurata varietà di comportamenti e personalità specifici che sono proprie di ciascun soggetto nella sua unicità. A fronte di comuni repertori stereotipi connotati dalla ripetizione, dalla povertà creativa, da un repertorio limitato e ristretto di interessi e di disorganizzate funzioni comunicative, ciascun individuo con autismo esprime anche una sua propria area di bisogni, di attitudini (a volte eccellenti), di richieste e di modalità di contatto con l’ambiente sociale. Ciò conduce obbligatoriamente a tenere conto di ogni singolarità nell’espressione di sé, e dunque ad organizzare e prevedere un setting di intervento ritagliato a misura del singolo. Ciò contiene maggiori probabilità di trasferire con meno difficoltà una serie di apprendimenti (nozioni e abilità pratiche) verso l’utente interessato e al centro dell’azione educativa. Tenere conto degli interessi, del livello di attenzione, dell’indice di reattività, dei particolari antecedenti che possono innescare o estinguere determinati repertori comportamentali, diventa necessario per poter strutturare un intervento che calzi adeguatamente alla persona che ne manifesta implicitamente il bisogno.

 

.) Strutturato e validato scientificamente. È noto che nell’ambito dell’autismo si siano succedute diverse proposte strategiche e che diverse di queste abbiano anche per un certo periodo fatto la loro fortuna promozionale, senza tuttavia registrare significativi risultati apprezzabili e rigorosamente fondati sotto il profilo scientifico. Questo ha prodotto anche, specie nell’ambito famigliare, illusioni miracolistiche e promesse di guarigione, facendo leva sui sentimenti di disperazione e di disorientamento di molti genitori disposti a fare di tutto pur di riuscire a gestire situazioni di obiettiva difficoltà nel rapporto con i loro figli con autismo.

È giusto orientare il nucleo parentale verso la conoscenza e la scelta (secondo il principio discusso al punto precedente) di una serie di ipotesi metodologiche in grado di favorire il raggiungimento di taluni risultati, seppur sottolineando in tutta onestà che non esistono metodi che possono assicurare con totale e prevedibile successo il soddisfacimento di obiettivi programmati da un piano di intervento. Insomma, la conduzione di un progetto in vivo deve anche ribadire e rimandare un atteggiamento realistico nei confronti del bilancio fra strategie e risultati osservabili.

 

.) Multidisciplinarietà. L’intervento strategico sull’autismo dovrebbe seguire logiche di collaborazione e confronto sinergico fra vari ruoli professionale e personalità scientifiche coinvolte, inclusa la famiglia, abilitata a pieno diritto come elemento fondante di un’èquipe di lavoro, secondo le teorie pionieristiche del fondatore del programma TEACCH Eric Schopler.

L’approccio di questo tipo diventa un’esperienza formativa per la famiglia, che viene resa partecipe e responsabile di un progetto condiviso e discusso in concertazione con le varie parti. Questo immette la famiglia in un percorso di potenziamento e di compliance che espande le sue risorse e ne impreziosisce il contributo offerto al gruppo di lavoro, in quanto l’ambiente domestico (ma spesso anche extradomestico) rimane uno degli osservatori privilegiati da cui attingere essenziali informazioni sulle condotte comportamentali del soggetto al centro dell’azione educativa, specie se in presenza di comportamenti elettivi o situazionali. La famiglia è in grado di riferire l’espressione di schemi comportamentali non altrimenti osservabili in altri contesti della vita del soggetto, specie nell’ordine dei bisogni e delle richieste e delle relative condotte comunicazionali investite per soddisfare le proprie istanze e gestire le dinamiche delle relazioni.

 

.) Monitoraggio. La qualità di un servizio educativo può essere agevolata da un continuo e scrupoloso controllo itinerante su quanto effettivamente si stia producendo in termini di risultati, e soprattutto quanto l’azione programmata stia incidendo sulla risposta del soggetto in trattamento, favorendone o meno la sua qualità di vita ed arricchendone il repertorio espressivo verso la funzionalità e l’adeguatezza delle richieste e dell’associato comportamento di problem-solving.

L’impegno di un serio e costante monitoraggio rappresenta un decisivo spartiacque fra un progetto condotto con impegno ed un’azione tecnicamente manchevole di qualità e reale incidenza positiva. È dunque più che utile e necessario verificare la portata degli effetti prodotti dalla propria influenza educativa, allo scopo di introdurre con flessibilità eventuali aggiustamenti secondo un’ottica di perfezionamento, pronti cioè a ricombinare in modalità creativa gli strumenti del proprio agire professionale, senza per questo venire meno al mandato scientifico che impronta e giustifica la nostra presenza e le pratiche che vi sono congiunte.

Un buon monitoraggio rende conto di quanto riusciamo a rimanere nella rotta degli intenti e delle mete previste, e di quanto siano eventualmente necessarie innovazioni o ri-strutturazioni a ritocco del percorso che stiamo effettuando insieme alla persona di cui ci prendiamo cura.

 

Tutte queste caratteristiche, se ricondotte in un modello di trattamento mediante parent-training, si declinano in diritti per la famiglia, ovvero il diritto a conoscere e fruire di una corretta informazione e a disporre di servizi che accolgano per tempo segnalazioni ed eroghino risposte tempestive, rigorose ed efficaci, centrati sulla singolarità dei bisogni speciali che dovranno essere accolti ed affrontati.

 

 

Brevissima bibliografia utilizzata:

 

  • Ianes D., Cramerotti S., Comportamenti problema e alleanze psicoeducative, Trento, Erickson, 2002.
  •  Vio C. et al., Parent training nell’autismo, Trento, Erickson, 2010.

 

dott. Nuccio Salis

(Pedagogista clinico, Counselor socioeducativo, Formatore analitico-transazionale, Educatore professionale ADH)

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